alla mensa della Parola - III Domenica per annum – B – 2018
Un profeta controvoglia
La prima lettura di oggi (Gion 3,1-5.10) riferisce un brano della “parabola” di Giona, un profeta che resiste alla chiamata del Signore, perché non è disposto a farsi tramite della compassione di Dio verso i pagani.
Il profeta è inviato a Ninive, la capitale del regno Assiria, una città sanguinaria, la cui malvagità era “salita fino” a Dio (Gion 1,2). Quella città è simbolo per eccellenza dell’infamia del peccato umano, quello che si accumula negli agglomerati delle grandi città; simbolo del “paganesimo” nella sua forma più compatta. L'annuncio di Giona non è un invito alla conversione, ma è una sentenza: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta» (Gion 3,4). Tuttavia Dio lascia all’uomo uno spazio di tempo per ravvedersi; gli offre ancora una possibilità.
A Ninive accade l’incredibile: all’annunzio di Giona, gli abitanti di Ninive credono in Dio, fanno penitenza e si convertono dalla loro condotta malvagia.
Anche il re di Ninive si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco, si mise a sedere come penitente sulla cenere, e impose a tutti – uomini e animali – un digiuno completo, per richiamare alla penitenza, allo scendere dai loro seggi nella cenere. Tutto il contrario di quanto fece Ioiakìm, re di Israele, quando Geremia gli fece leggere il rotolo con l’annuncio delle punizioni. Ioiakìm resta seduto sul trono e taglia pezzo per pezzo il rotolo, che alla fine diventa per intero preda delle fiamme (cfr. Ger 36,21-24).
L’atteggiamento dei niniviti ci fa comprendere che solo se si scende si può salire a Dio. La salvezza è per quelli che accettano la katabasis di Dio, il Dio-Umiltà-che-si-umilia, e scendono da se stessi. Per salvarsi è necessario scendere dal cavallo del proprio orgoglio e delle nostre false certezze, della nostra superbia intellettuale. Questa è la prima penitenza da compiere.
E allora Dio si impietosisce e salva. Infatti Dio si ravvide (si pentì) riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece. Se l'uomo cambia, Dio può cambiare. E chiunque può cambiare, anche Ninive. Dio perdona chiunque, appena vede un sincero pentimento.
Il racconto non finisce qui. Giona non gradisce l’agire di Dio, non lo ritiene giusto. E ne è indispettito. Ed è anche deluso perché la sua parola è stata smentita. Egli aveva proclamato: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta» (Gion 3,4); invece, non è stata distrutta. Dio istruisce Giona. Gli ripete due volte la domanda: «Ti sembra giusto essere sdegnato così?» (Gion 4,4). Vuole che Giona rifletta. L'ultima parola è di Dio ed è una domanda lasciata in sospeso. «Tu hai pietà per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita! E io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?» (Gion 4,10-11).
L’insegnamento della “parabola” è racchiuso in questa domanda finale che Dio pone a Giona: in contrasto con la mentalità del profeta, portavoce di un gruppo di giudei che non vedevano al di là del proprio santuario, della propria città e del proprio paese, il Dio di Israele ama anche i pagani. Sono osservanti rigidi e scrupolosi, e in questo sono ammirevoli. Ma il loro giudizio su tutti coloro che la pensano diversamente, su tutte le novità che incontrano, è sempre severo, negativo; non fanno altro che lamentarsi. Questa è la loro stortura, ma anche la nostra stortura: lamentarci perché il mondo va male e perché il piano di Dio non si realizza. In realtà non è il piano di Dio che non si realizza, ma il nostro modo di immaginarlo.
«Ti sembra giusto essere sdegnato così?» (Gion 4,4): Dio rivolse questa domanda a Giona, e oggi la rivolge noi, che ci riteniamo buoni e condanniamo i cattivi, che siamo invidiosi se Dio perdona coloro che pur, essendo cattivi, sono in cerca di salvezza.
La prima predica di Gesù
Il Vangelo di oggi ci riferisce la prima predica di Gesù (Mc 1,14-20). È brevissima, ma presenta i temi fondamentali di tutta la sua predicazione: il compimento del tempo, il regno di Dio, la conversione, la fede al vangelo. Poi vi è la chiamata dei primi discepoli, paradigma concreto di ogni sequela.
Dopo che Giovanni fu consegnato. Il racconto inizia con questa precisazione di tempo, che non vuole essere una notizia di cronaca. Essa piuttosto ha un valore teologico: l’arresto del Battista è una prefigurazione del destino di Gesù. L’evangelista dice che Giovanni fu consegnato, usando il verbo greco paradidonai, che è una parola chiave del racconto della passione (14,10; 18,21.4; 9,31; 10,33). Più avanti (cfr. cap 6) Marco ci fa capire che il destino del Battista prefigura anche quello del discepolo.
Gesù andò nella Galilea. L’attività di Gesù inizia in Galilea e si concluderà in Galilea (cfr. Mc 14,28; 16,7). Anche qui non si tratta di un semplice dettaglio geografico. Probabilmente Marco vuole evidenziare il contrasto tra la Giudea e Gerusalemme (luogo dove il Cristo è rifiutato e ucciso) e la Galilea, il luogo della predicazione e dei miracoli, delle folle, simbolo del mondo pagano (la Galilea delle genti) che accoglierà il vangelo.
Proclamando il vangelo di Dio. Il verbo greco kerussein (= proclamare più che predicare) indica l’annuncio di un evento. L’espressione va collegata all’incipit del racconto di Marco, che con solennità esordisce Inizio del Vangelo di Gesú Cristo, Figlio di Dio (1,1). Arché – Inizio non indica solo il principio del libro scritto da san Marco, ma può significare anche l'inizio storico del Vangelo, cioè il momento (intorno al 28 d.C.) in cui Gesù cominciò a predicare. Inizio del Vangelo è allora soprattutto l’inizio di un buon annunzio, della buona novella, cioè della speranza che rinnova la storia, l’inizio della nuova vita, che è esplosa in Gesù Cristo. Vangelo di Gesù Cristo, indica la buona notizia su Gesù Cristo, cioè ha Gesù Cristo come oggetto. L'evangelo è Gesù, Cristo, il Figlio di Dio. Egli è e rimane il criterio essenziale e il punto di riferimento della nostra esistenza.
Ma Colui che è Egli stesso Vangelo, nello stesso tempo è il primo e massimo annunciatore del Vangelo di Dio. Il racconto di Marco afferma con tutta chiarezza e senza alcuna equivocità che l’oggetto della predicazione di Gesù di Nazaret è Dio. Egli è venuto per parlarci del Padre, per rivelarci il Padre. Precisamente, perché «Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18). È interessante notare nel Prologo giovanneo la presenza del verbo exegéomai che non significa più raccontare, riferire o esporre, ma rivelare. Gesù che rivela Dio è l’esegeta di Dio. «Il Figlio unigenito, che è rivolto verso il seno del Padre, ha rivelato il Dio che «nessuno ha mai visto» (Gv 1,18). Gesù Cristo viene a noi, «pieno di grazia e verità» (Gv 1,14), che per mezzo di Lui sono donate a noi (cfr Gv 1,17); infatti, «dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia» (Gv 1,16). In tal modo l’evangelista Giovanni nel Prologo contempla il Verbo dal suo stare presso Dio al suo farsi carne, fino al suo ritornare nel seno del Padre portando con sé la nostra stessa umanità, che egli ha assunto per sempre. In questo suo uscire dal Padre e tornare a Lui (cfr Gv 13,3; 16,28; 17,8.10) Egli si presenta a noi come il «Narratore» di Dio (cfr Gv 1,18). Il Figlio, infatti, afferma sant’Ireneo di Lione, «è il Rivelatore del Padre» (Adversus haereses, IV, 20, 7: PG 7, 1037). Gesù di Nazareth è, per così dire, l’«esegeta» di Dio che «nessuno ha mai visto». «Egli è immagine del Dio invisibile» (Col 1,15)» (Verbum Domini 90).
e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Sono parole che indicano con molta chiarezza la struttura fondamentale dell'esistenza cristiana. Precede l'indicativo (il tempo è compiuto; il Regno è arrivato), cioè l'annuncio di un fatto, l'offerta del dono di Dio che apre all'uomo una nuova possibilità di vita e di comprensione. All'indicativo segue l'imperativo (convertitevi; credete), al dono la risposta. Prima il vangelo, poi la morale. Prima l’azione di Dio, poi la risposta dell’uomo.
Il tempo è compiuto. Il tempo non è il chronos, il tempo normale che semplicemente scorre. È il kairos, il tempo decisivo, l’occasione da non perdere, il tempo ricco di possibilità. La forma passiva del verbo compiere (peplerotai) indica che non è l’uomo, ma Dio che rende compiuto il tempo con l’avvento di Cristo. Nel testo di Marco il verbo peplerotai è un passivo teologico, e il tempo perfetto indica che la pienezza del tempo con l’arrivo del Cristo (cfr. Gal 4,4), continua con la sua carica di salvezza e, quindi, con la sua caratteristica di irripetibilità e decisività.
Il regno di Dio è vicino (greco: eggizein), cioè è imminente, anzi è già in atto. L’espressione “Regno di Dio” indica l’azione regale di Dio, la sua giustizia, il suo intervento salvifico e definitivo, risolutore, predetto dai profeti. Ma Gesù proclama che l’intervento di Dio è qui ed ora, perché il Regno è legato alla persona di Cristo e si fa presente in Lui. Gesù non è un semplice profeta che annuncia, ma è lo stesso Figlio di Dio venuto fra noi per operare la salvezza con la sua morte e risurrezione. Perciò quando, dopo la risurrezione di Gesù, gli apostoli si ricordarono della sua predicazione, essi ne compresero il più profondo significato. L’intervento definitivo di Dio a favore dell’uomo, e la sua decisiva azione dentro la storia umana – diciamo: il Regno di Dio – sono costituite dalla morte e dalla risurrezione di Gesù. Lui è la salvezza offerta all’uomo una volta per sempre. Si comprende quindi che dopo la Pasqua scompare, quasi del tutto, dalla predicazione cristiana, l'espressione «Regno dei cieli» o «Regno di Dio», cosi centrale nella predicazione di Gesù. Al suo posto troviamo il kerigma apostolico: Cristo è morto; è risorto; è il Signore! Infatti, ora il Regno, o la salvezza, consiste proprio in questo. Prima della Pasqua Gesù diceva: Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo (Mc 1,15); dopo la Pasqua, questo annuncio fondamentale, fatto di una notizia («Il Regno è venuto!») e di un comando («convertitevi!»), suona ormai cosi: Dio ha costituito Signore e Cristo, Gesù...: pentitevi e fatevi battezzare... (At 2,36.38).
Convertitevi e credete nel Vangelo
In Gesù è apparso, in tutta la sua profondità, l'incredibile e sorprendente amore di Dio verso di noi, verso l'uomo, ogni uomo. Ecco l'evento da accettare, del quale fidarsi e sul quale modellarsi: tutto questo è la conversione.
Con l’imperativo convertitevi Gesù non invita a un generico cambiamento, né intende richiamare alla penitenza nel puro senso della rinuncia e neppure indica un semplice passaggio sul piano morale.
L’appello alla conversione implica qualcosa di più e di diverso, che l'evangelista Marco sottolinea facendo seguire immediatamente il racconto della chiamata dei primi discepoli (1,16-20). In questo racconto della chiamata la conversione si precisa come un distacco e un seguire, dove il distacco non è fine a se stesso, ma è funzionale al seguire. E una ricerca di libertà per un nuovo progetto di esistenza, indicato appunto dal verbo seguire. Ecco il punto: convertirsi significa percorrere la via del Maestro. Occorre quindi cambiare la visione e il giudizio, sia nel modo di parlare e di valutare, sia nel comportamento pratico, e ciò a partire dal Vangelo, dalla “buona notizia” che ci ha raggiunto in Cristo.
Credere al Vangelo vuol dire credere vero ciò che il Vangelo annuncia, affidarsi al Vangelo e farne il centro delle proprie scelte, disponibili a cambiare il progetto di vita. L’esempio concreto è appunto la chiamata dei primi discepoli.
Passando lungo il mare di Galilea
Il racconto evangelico prosegue presentando due coppie di fratelli che vengono chiamati da Gesù: Simone e Andrea; Giacomo e Giovanni. Sono due scene parallele, nelle quali Marco ripete due volte i medesimi motivi.
Innanzitutto che Gesù chiama i discepoli passando lungo il mare di Galilea. Lo scenario della vocazione è lo scenario profano del lago e del lavoro. L’appello raggiunge il discepolo nella sua vita quotidiana.
Vide, disse, chiamò. Questi sono i verbi più importanti di tutta la narrazione, da cui emerge che l’iniziativa è tutta di Gesù. Non sono i quattro pescatori che hanno cercato e trovato il Signore. Sono stati trovati dal Signore. Perciò nella preghiera sacerdotale (cfr. Gv 17,9) Gesù parlerà di coloro che tu, o Padre, mi hai dato. Nello stesso tempo si deve sottolineare che comunemente sono i discepoli che cercano il maestro, per imparare e divenire a loro volta maestri. Qui avviene tutto il contrario: è il maestro che cerca i discepoli. Perciò Gesù potrà dire: Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi (cfr Gv 15,15).
E subito lasciarono le reti e lo seguirono. - Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui. La vocazione comporta un distacco radicale e profondo, uno sradicarsi dal mestiere e dalla famiglia. Ma se il discepolo si stacca da tutto, è unicamente perché ha incontrato Qualcuno più importante, sul quale orientare e concentrare tutta l’esistenza. Non si lascia per lasciare; non si lascia per disprezzo, ma per uscire da se stessi e andare dietro a Lui, condividendo il suo progetto di vita. Questo indica il verbo seguire. I discepoli non accettano l’invito di Gesù per imparare una dottrina, ma per iniziare una vita in comune con Lui e fra di loro. Innanzitutto la comunione con il Maestro; poi, in conseguenza, la comunione fraterna. Se, infatti, da questo momento in poi i quattro pescatori vivono insieme, in gruppo, non è perché hanno scelto di stare fra loro, ma perché tutti hanno scelto di stare vicino alla stessa Persona.
Seguire, andare dietro. La sequela è sempre un cammino, è sempre un percorrere con Gesù le strade della storia.
Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini. Gesù si esprime con un verbo al presente (venite) e un altro verbo al futuro (vi farò): prima seguire; poi andare; prima la comunione, e poi la missione. Il seguire però è orientato all’andare; e la comunione deve essere, già all’inizio, proiettata verso la missione. Se il seguire non si conclude in un andare, significa che si è intrapreso un itinerario sbagliato. Non si è seguito Gesù, ma se stessi.
Vi farò diventare: non è il discepolo che si fa pescatore; è Gesù che lo fa diventare pescatore, quando e come vorrà.
La prima parola di Gesù al discepolo è “seguimi”. L’ultima, alla fine del vangelo, è “andate nel mondo intero”. Fra i due momenti si distende un cammino in cui il discepolo deve imparare molte cose: che egli non deve parlare a nome proprio, ma su incarico; che non deve parlare di sé, ma unicamente di Cristo; che il suo orizzonte non è la piccola comunità, ma il mondo intero; che in questa impresa missionaria non è mai solo, ma sempre in compagnia del suo Signore. Mai davanti a Lui, però, bensì sempre un passo indietro. A scegliere la direzione è Gesù, non il discepolo (cfr. B. Maggioni, Il racconto di Marco. Assisi, Cittadella Editrice, 1999).
Il tempo si è fatto breve.
Questa espressione di san Paolo nella seconda lettura di oggi (1Cor 7,29-31) riecheggia l’annunzio di Gesù: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15), ma ha un diverso significato. Gesù si riferisce al tempo che ha raggiunto la pienezza quando Egli, con la sua Incarnazione, è entrato nel mondo. Allora il tempo, come occasione di grazia (kairos), ha raggiunto il suo massimo sviluppo, appunto la pienezza, perché il Verbo venuto dal Padre è pieno di grazia e di verità, e dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia (cfr. Gv 1,14.16).
L’Apostolo, invece, si riferisce al tempo che separa la prima dalla seconda venuta di Gesù. Questo tempo è breve, non già perché la fine del mondo è imminente [forse san Paolo era di questo avviso], ma perché il compimento del tempo con la Incarnazione del Verbo inaugura gli ultimi tempi; e la storia entra nella sua fase ultima. Quindi, lunga o breve che sia, l’esistenza di questo mondo prosegue ormai sotto il segno della fine: anzi il regno di Dio, anche se in modo nascosto, è già in una certa misura presente. Al vecchio mondo dominato dal peccato sta ormai per subentrare un mondo nuovo, contrassegnato dalla sovranità di Dio, nel quale l’egoismo dell’uomo lascerà il posto a rapporti nuovi ispirati dall’amore.
Passa la figura di questo mondo
Questa espressione conclude la pericope paolina e intende giustificare le precedenti affermazioni. L’Apostolo usa il termine «figura» (schêma), che può indicare anzitutto la parte esterna e visibile (l’apparenza) di una cosa: se così fosse egli intenderebbe dire che il mondo è una realtà apparente, destinata a passare, diversamente da quelle realtà più vere e sostanziali che non avranno mai fine perché sono costruite sulla giustizia e sull’amore. Lo stesso termine può indicare però anche la parte che un attore recita in un’opera teatrale: in questo caso l’apostolo direbbe che il mondo è come un attore che ha esaurito la sua parte e sta per lasciare il palcoscenico. In ogni caso la frase significa che il mondo è una realtà limitata e transitoria, alla quale non conviene appoggiarsi.
Il tempo si è fatto breve; passa la figura di questo mondo.
La brevità del tempo e la provvisorietà (fugacità) del mondo esigono che i discepoli del Signore rivedano il loro rapporto con le cose terrene e cambino atteggiamento anche nei confronti dei valori umani, che per quanto grandi e importanti, tuttavia rientrano anch’essi nella provvisorietà e non sono da assolutizzare. Perciò san Paolo pone queste altre affermazioni:
- quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero;
- quelli che piangono, come se non piangessero;
- quelli che gioiscono, come se non gioissero;
- quelli che comprano, come se non possedessero;
- quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente.
Quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero.
La brevità del tempo e la scena di un mondo che passa devono illuminare anche l’esperienza della vita coniugale. Anche il matrimonio è limitato alla storia e deve essere vissuto nella sua intrinseca proiezione alla metastoria, dove trova i suoi riferimenti ultimi. Il matrimonio è la più alta esperienza dell’amore umano, e il suo valore è altissimo, ma esso non è il valore supremo. Sin dalla creazione il significato del matrimonio scaturisce dal suo orientamento al Mistero di Cristo. Questo è il valore assoluto, cui lo stesso matrimonio è funzionale e relativo. I discepoli del Signore non possono mai prescindere dal loro rapporto con Cristo instaurato nel Battesimo; ad esso debbono conformare la propria vita, anche nel matrimonio. Le esigenze del nubere in Christo sono inderogabili; non sono conciliabili con alcun relativismo né possono essere subordinate o sacrificate all’etica della situazione (cfr. Giovanni Paolo II, Familiaris consortio [qui]; Veritatis splendor [qui]).
Quando si scade nell’egoismo di coppia, che spinge i due a cercare l’uno nell’altro unicamente il proprio piacere, allora le esigenze della vita matrimoniale si moltiplicano all’infinito e le attese diventano esagerate. Cercare un’altra persona per sentirsi “pieni”, realizzati, ecc., è estremamente pericoloso. Ciò finisce per rendere il fidanzamento o il matrimonio una divinità, lo fa diventare qualcosa di demoniaco o idolatra. Questo offende la dignità della persona umana e distrugge fisicamente e moralmente le persone. Il mondo di oggi sembra tutto proteso a propagandare modelli di vita matrimoniale propri del paganesimo primitivo e tutto ciò, magari, con il supporto di teorie psicologiche e sociali discutibilissime; vi si fa sfoggio di bellezza e giovinezza, perché l'uomo pagano, per reggersi, ha bisogno assoluto di essere giovane e bello; il mondo vi appare popolato tutto e solo da giovani coppie senza alcun problema, se non quelli di ordine sentimentale e sessuale; per il resto, vi regna il permissivismo più sfrenato. A questo livello ci si può anche illudere di raggiungere la propria realizzazione personale e che il proprio matrimonio è perfettamente riuscito. In realtà quel matrimonio è un fallimento davanti a Dio. Viceversa, si può fallire nel proprio matrimonio ed avere una vita preziosa davanti agli occhi di Dio, specie se riscattata dall'accettazione della croce.
Il matrimonio “idolo” è, essenzialmente, un matrimonio fallimentare.
I cristiani non si sposano perché l’altra persona risponda ai propri capricci personali o per avere da lei ogni soddisfazione possibile, ma per onorare Dio; Il matrimonio quindi va vissuto davanti a Dio (coram Deo) e per Dio. L’autentica riuscita del matrimonio deriva dal rapporto con Dio in Cristo e dalla fede nella risurrezione. Ciascuno — ammoniva san Paolo — sappia possedere il corpo del proprio coniuge con santità e rispetto, non come oggetto di passione e di libidine, come i pagani che non conoscono Dio (cfr. 1Tess 4, 4); e san Pietro aggiunge: Voi, mariti, trattate con riguardo le vostre mogli... Rendete loro onore perché partecipano con voi della grazia della vita (1Pt 3, 7).
Un giorno, nella risurrezione, il vincolo che ha unito in vita un uomo e una donna non sarà troncato o dimenticato, ma esso sarà spiritualizzato, sarà un vincolo di perfetto amore e fedeltà, senza bisogno del segno dell'amore fisico che ci si scambiava in vita. Il vero e perfetto sposalizio avverrà solo in cielo, tra i figli della risurrezione.
Sono questi i valori autentici da trasmettere ai giovani e ai coniugi per vivere la verità del loro amore e affrontare le situazioni difficili della vita, che comporta anche l’impegno della castità, per crescere in un amore più alto e più profondo, un amore realmente animato dallo Spirito Santo. Questo precisamente insegna san Paolo quando afferma: Quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero.
Quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero.
Neanche le esperienze umane della gioia e soprattutto del dolore devono essere visti come assoluti, l’una da cercare a ogni costo e l’altro da evitare. Anche queste devono essere vissute come realtà transitorie, destinate a finire, e quindi relative e superabili. Anche i propri stati d’animo devono essere gestiti in vista di un fine più grande, come mezzo per raggiungere la piena comunione con Dio e con i fratelli che è tipica del nuovo mondo che è ormai all’orizzonte.
Quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente.
L’Apostolo non insinua una svalutazione delle realtà terrene né induce al loro disprezzo. Il terrena despicere di qualche antica orazione liturgica non necessariamente significa disprezzo, quanto piuttosto un guardare dall’alto (de + specio), dal cielo appunto, con uno sguardo panoramico che riequilibra e ridimensiona il valore di tutto ciò che appartiene alla terra. È necessario quindi non terrena sapere - non assumere il gusto delle cose terrene - e amare le realtà celesti (amare coelestia); attaccarsi, sin da ora (mentre viviamo tra le realtà provvisorie), a ciò che è definitivo: iam nunc inhaerere mansuris (Sacramentario Veronese: Orazione per l’Ascensione). Occorre l’ascesi di mitigare le cose terrene e di frequentare la scuola che ci insegna ad amare le cose del cielo terrena mitigantes discamus amare coelestia (Super oblata: Sacramentario gregoriano 1118). Dobbiamo liberarci dalle passioni o dalle bramosie terrene per “passare” al desiderio del cielo. Quindi c’è da entrare nella dinamica della Pasqua, e compiere un esodo, un transitus: a terrenis cupiditatibus liberati ad caelestia desideria transeamus (Messale Tridentino: Domenica III dopo l’Epifania).
Questo itinerario non porta al disinteresse per il mondo. Al contrario, l’amore per le cose celesti, l’adesione a ciò che è eterno, sono il lievito da immettere nella città terrestre, sfigurata dal peccato, per sottrarla a ogni forma di egoismo, per purificarla e renderla ogni giorno sempre più conforme al disegno di Dio. Non si tratta di abbandonare il mondo al suo destino, ma di vivere in esso senza cedere a quei meccanismi di possesso che purtroppo condizionano il comportamento della gran parte degli uomini. Il distacco di cui si parla non implica un impegno minore nelle cose del mondo, ma piuttosto vincola nel perseguire tramite le realtà terresti il bene di tutta l’umanità, evitando ogni appropriazione indebita o il profitto individuale o di gruppo e lottando decisamente contro ogni forma di corruzione. L’uso dei beni non può prescindere dagli ideali di giustizia, di solidarietà e di fraternità, radicati nel Vangelo e costantemente insegnati dal Magistero sociale della Chiesa (cfr. Paolo VI, Populorum progressio [qui]; Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis [qui]; Benedetto XI, Caritas in veritate [qui]; Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa [qui]).
In definitiva i beni di questo mondo hanno un carattere transitorio; non possono diventare lo scopo della vita. La Parola di Dio ci richiama a una dimensione essenziale del vivere cristiano: la provvisorietà, il vivere da pellegrini e forestieri. Siamo in trasferta e dobbiamo ritornare a casa. Noi non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura (Ebr 13, 14; Fil 3, 20). Occorre essere sempre sul piede di partenza, con i fianchi cinti e le lampade accese; simili a quelli che aspettano il loro padrone quando tornerà dalle nozze, per aprirgli appena giungerà e busserà (cfr. Lc 12,35).
I discepoli del Signore vivono il tempo che si è fatto breve come paroikoi, cioè pellegrini (1Pt 2,11); il tempo della loro vita è tempo di paroikia, cioè di pellegrinaggio (1Pt 1,17). Sono gli stessi termini da cui derivano «parroco», «parrocchiani» e «parrocchia». È bene ricordarcene ogni qual volta parliamo di parrocchia e di vita parrocchiale. È bene ricordarcene per acquisire la consapevolezza che la nostra esistenza è limitata e provvisoria, che i discepoli del Signore sono pellegrini, che il pellegrinaggio comporta la fatica e la gioia del cammino verso la patria, verso il «mondo di Dio», e richiede «la perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12,1-2). La fede sia luce per la nostra strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo.