Le Lamentazioni: la terra delle lacrime
Prof. Paola Ricci – Università di Messina
XXIX Giornata per l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo
tra cattolici ed ebrei
Ricordo drammatico della caduta di Gerusalemme e della distruzione del Tempio, le Lamentazioni rappresentano —fra altri segni sconfortanti — una compiuta fenomenologia delle lacrime, dal momento che i pianti silenziosi e quelli clamorosi, che le scandiscono, rivestono un significato che trascende il contesto storico che li ha motivati. Così nel libro dello Zohar queste lacrime si rivelano indissociabili da una riflessione sulla condizione umana, in un mondo in cui Dio sembra essere scomparso. I segni della presenza di Dio infatti - il Tempio e tutto ciò che esso conteneva - sono diventati illeggibili dopo l'assedio e la distruzione della città.
"Dal mio occhio scorrono lacrime, perché lontano da me è chi consola, chi potrebbe ridarmi coraggio " (Lam 1,16), ed ancora: " si sono consunti per le lacrime i miei occhi, le mie viscere sono sconvolte; si riversa per terra la mia bile per la rovina della figlia del mio popolo"(2,11). Le lacrime, associate prevalentemente al ricordo della propria città e dell'amato Tempio, hanno per secoli attraversato la memoria del popolo scelto, ed anche oggi tale ricordo brucia e sconvolge, nonostante quel tempo sia lontanissimo ed altre prove storiche durissime si siano sovrapposte.
E' come se quel dolore e quel lutto di necessità fosse esteso a tutta la storia di Israele, quasi che quei pianti e quella catastrofe rappresentassero un punto estremo di compimento e di fallimento senza rimedio. Per questo si deve ancora piangere, perché questa inguaribile ferita segna una lacerazione che trascende quell'ora e continua ad insinuarsi nella spina dorsale del credente, anche nei momenti di felicità, allorché lo sposo, il giorno delle nozze, rompe un bicchiere in memoria del Tempio distrutto, perché nessuna gioia potrebbe celebrarsi nella dimenticanza della desolazione di quel triste evento.
Come comprendere questa perseveranza del pianto? Freud ha parlato al riguardo di una morbosa fissazione, di una abnorme soggezione al passato, di una frustrazione, tutta ebraica, di macerarsi nel dolore e di bloccare la spinta vitale verso l'autorealizzazione di sé.
Nulla di più erroneo; se è vero che, nell'ebraismo come nel cristianesimo, eventi dolorosi del passato vanno ricordati, o meglio, riattualizzati, perché possano illuminare lavita del credente. In tal senso piangere al ricordo del Tempio o rattristarsi in memoria della Passione di Gesù, non significa certo lasciarsi imprigionare dall'evocazione rituale di un passato mitico, ma —come dice il rabbi di Gur (maestro chassidico dell'800)— ascoltare la Voce che qui parla, capace di mettere in gioco la persona nella concretezza della propria esistenza.
La delusione, la nostalgia, il dolore, insomma, non sono solo l'effetto di un sentire acutizzato e lacerante, ma la spia di una attesa profonda del vivere, occasione di prova e di giudizio sul proprio vissuto. Detto altrimenti: all'interno della vasta gamma delle emozioni dalla sofferenza al pianto, dal turbamento alla delusione si istituisce la loro connotazione spirituale e rivelativa, dal momento che Dio stesso ha dato dignità e verità a questi modi particolari di abitare la complessa vicenda dell'incontro tra il divino e l'umano.
Quando si è attraversati dal collasso dello spirito si può reagire anche, o forse soltanto, con il pianto. Con tutta la sua variegata fenomenologia il piangere attraversa — a ben vedere- le vicende della storia letteraria e artistica, e non solo dell'Occidente, oltre che rappresentare una delle esperienze più vive all'interno delle Scritture ebraico -cristiane: basti pensare al tema teologico del Dio sofferente o a quello della Madre che ha pianto per il Figlio e che continua a piangere per i tanti suoi figli.
Cosa sono le lacrime? Si tratta di un evento espressivo che passa attraverso il corpo, pur appartenendo ad un altro livello dell'essere, all' interiorità psichica e spirituale.
Chi piange si esprime in modo immediato, non simbolico, come chi ha perso il controllo e la capacità dell'elaborazione oggettiva di una particolare situazione. Il suo carattere eruttivo lo situa in prossimità delle espressioni emotive. Qualcosa prende il sopravvento e deve scaricarsi; più affine a grida inarticolate che al linguaggio, il pianto risale dalle profondità della vita sentimentale. Si distingue però dalle emozioni — amore, gioia, collera ecc. - perché non riesce ad elaborare una impronta simbolica sulla corporeità, rimanendo, come dire, standardizzato nella sua opacità. Il piangere infatti non lascia trasparire nulla del vissuto interiore, mantiene un riservato segreto, sino a che interviene la comunicazione e il linguaggio.
Questa particolarità, che definisce le lacrime come un'espressione tipicamente umana, acuisce l'interesse per questa manifestazione emotiva, entro cui si intrecciano in modo enigmatico la dimensione corporea con quella spirituale. Il pianto, insomma, pur conosciuto nei suoi meccanismi fisiologici, esprime l'esigenza di superare la frattura tra la sfera fisica e quella spirituale, in nome della corporeità che si incarica di esprimere il profondo disagio dell'anima a far fronte al dolore.
Nel misterioso passaggio dall'interno all' esterno il piangere, espressione di una rottura e di una capitolazione, rappresenta pur sempre una risposta, l'unica sola possibile in una situazione impossibile. Quando non c'è più niente da dire o da fare, il corpo —come uscito dal rapporto con l'uomo- si incarica per lui della risposta, non più in qualità di strumento dell'azione, del linguaggio, del gesto simbolico o dell'atteggiamento gestuale, ma come corpo. Lo sconforto minerale della materia che il pianto produce, la lacrima appunto, è come la voce metafisica del turbamento e del disagio di tutto il creato a dare conto del dolore, quello che nessuna tematizzazione logica e razionale è in grado di dare.
In questo dire <altrimenti> l'irrecuperabile perdita che il patire produce, si innesta la narrazione biblica che parla di un Dio pathos, che partecipa alle vicende di sofferenze e di gioia del suo popolo, e che non manca di istaurare con le sue creature un legame compassionevole e misericordioso. E' su questa linea teologica che si sviluppa l'affascinante letteratura rabbinica post — esilica, di cui fa fede il commento di rabbi Ismaele al versetto 12,41 di Esodo: "Al termine dei quattrocentotrent'anni, proprio in quel giorno, tutte le schiere del Signore uscirono dal paese d' Egitto". La certezza ivi espressa è che il Signore, nell'ora della prova, è sempre in comunione con il suo popolo o anche con uno solo dei suoi membri: " Quando furono riscattati, che cosa si dice? (...) In ogni loro tribolazione anch' Egli è in angoscia (Is 63,9).
L'assenza di Dio, nelle Lamentazioni, risponde a questa logica: la solitudine e il lutto di Gerusalemme, dopo la distruzione del Tempio, significano —per la tradizione mistica ebraica — che Dio stesso piange e porta il lutto. Le lacrime versate non hanno dunque come unico oggetto la deplorazione da parte degli abitanti della Terra santa della loro sorte, esse sono collegate al divino e patiscono direttamente delle sue passioni. Rabbi Lev Yishaq di Berdichev (metà 700) sostiene, nel suo commento alle Lamentazioni, che " le lacrime impressionano il Sopra". Ciò implica l'idea che Dio, lungi dal restare impassibile di fronte alle sofferenze umane, ne patisca tanto profondamente da rendere problematico sapere chi sia il vero soggetto delle lacrime che scendono sui volti: è l'uomo che piange per le sue infedeltà o è Dio che nel suo amore più grande di ogni severità, piange udendo le grida del dolore umano?
Il Dio che soffre gli stessi dolori del suo popolo trova nel Nuovo Testamento un pieno riscontro nella persona di Gesù: sono da ricordare le lacrime versate per la morte dell'amico Lazzaro (Gv 11,35), il pensiero deluso verso le sorti della città santa, Gerusalemme, oltre che i numerosi episodi di compassione davanti a casi dolorosi da lui incontrati, per giungere infine alla suprema vicenda di sofferenza nell'ora della passione, come si ricorda nella lettera agli Ebrei:
" Egli nei giorni della sua carne offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio imparò l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono" (Eb 5, 7-9).
Le lacrime riempiono anche la vita della Madre del Signore soprattutto in quel concentrato di dolore che furono "i tre giorni", espressi drammaticamente dai celebri versi di Péguy:
"Da tre giorni piangeva.
Piangeva, piangeva.
Come nessuna donna ha mai
pianto. Nessuna donna".
C'è comunque da aggiungere che il pianto di Dio, quello del Figlio, dello Spirito, e quello della Madre non può essere colto soltanto come cifra della costitutiva partecipazione alla finitezza umana; c'è un valore aggiunto, per così dire, che i Padri del deserto, con la loro densa spiritualità, hanno percepito, considerandolo come dono del cielo. Le lacrime sono, in questo scenario, epifania della compassione senza misura e senza esclusione, capace di rifare puri i cuori e di colmare l'attesa della terra promessa. Si legge infatti nei Padri, in Isacco il Siro:
"Un fratello interrogò un anziano: < Come mai la mia anima desidera le lacrime come quelle degli anziani di cui sento parlare, ma non vengono, e la mia anima si affligge?>. Gli rispose l'anziano: < Solo dopo quarant'anni i figli di Israele entrarono nella terra promessa. Ora le lacrime sono la terra della promessa: quando vi sarai giunto, non avrai da temere più la guerra. Dio vuole infatti che l'anima sia afflitta perché desideri incessantemente entrare in quella terra".
E' proprio il Signore Ineffabile che sembra porre nell'uomo questo desiderio di pianto, così che si riveli la originaria e umile verità dell’uomo, il suo autentico mondo, le caverne profonde del senso", entro cui dimorare.
"L'effusione delle lacrime - come dice Isacco di Ninive - è dapprima una sorgente intermittente, che diventa a poco a poco permanente. (...) Finché hai dita, sègnati nella preghiera, prima che venga la morte. Finché hai occhi, riempili di lacrime, prima che la cenere li ricopra".
Definito "fonte battesimale", il pianto diventa in tal senso manifestazione di Dio e indice di guarigione, persino di bellezza, che esprime perdono e purificazione, attirando la misericordia del cielo e diventando espressione dello stupore grato di fronte alla profondità della sapienza e della gloria di Dio.
Quasi che le lacrime potessero diventare il ponte tra cielo e terra, appartenendo in ugual misura a questi due mondi: alla prima, terra della Trinità, abitata dal Creatore che da sempre patisce le sorti della sua creazione; dal Figlio che ha condiviso in pieno la finitezza dell'uomo, dallo Spirito Santo che continua a seminare compassione in una terra lacerata dal male. Al secondo mondo, quello abitato dagli uomini, i cui fiumi di pianto indicano che I' inesprimibile ulteriorità che ogni lacrima segna, senza poterla esprimere, non è soltanto la cifra della sua ontologica debolezza, ma la traccia dell'umile accesso alla terra feconda della speranza.
Anche questo, del resto, è il messaggio che proviene dalle Lamentazioni: nonostante il male che si abbatte furioso nella vita di Israele, nonostante la perdita, nonostante il forzato esilio, Dio non si dimentica delle sue promesse:
"Perché le misericordie di JHWH non sono
finite Non è esaurita la sua compassione
Che si rinnovano ogni mattino.
Grande è la sua fedeltà" (Lam 3,22 e 23)
Ed ancora al capitolo 5, versetto 21:
" Facci tornare a te. E noi ritorneremo
Rinnova i nostri giorni come in antico
Poiché non ci hai respinti per sempre".
Sta proprio qui il senso spirituale profondo di questo Rotolo: nel restituire al dolore la sua dignità, nell'affidare alle lacrime il loro riscatto, nello sperare che le promesse, a suo tempo, saranno mantenute, perché ciò che Dio ha donato, non se lo riprende più.
Messina 17 gennaio 2018.