alla mensa della Parola - II Domenica per annum – B – 2018

Dio è colui che chiama: questo è uno dei titoli che la Bibbia attribuisce a Dio. Nulla e nessuno è anonimo davanti al Signore che «conta il numero delle stelle e chiama ciascuna per nome» (Sal 147,4). Al nome che Dio attribuisce ad ogni uomo corrisponde un’identità, una vocazione, una missione.
Oggi la Parola di Dio ci presenta due racconti di vocazione: la vocazione di Samuele (1a lettura: 1Sam 3,3-10.19) e la vocazione dei primi discepoli di Gesù (Vangelo: Gv 1,35-42). Questo secondo racconto ci riguarda da vicino; anche noi oggi siamo invitati a fare la gioiosa scoperta di Gesù come nostro Maestro, come quei due primi discepoli.


Seguiamo il racconto evangelico
In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!».
Il Battista stava ancora là (v. 35), nello stesso luogo dove si trovava il giorno prima, a Betània, al di là del Giordano (Gv 1,28). Gesù, invece, si era messo in movimento, aveva iniziato il suo cammino, passava. Giovanni stava, cioè si era fermato, perché aveva concluso la sua missione, quella di indicare il messia. Adesso egli consegnava a Gesù i suoi discepoli e accettava di scomparire: “Egli deve crescere e io invece diminuire” (Gv 3,29-30).
Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni … era Andrea
Soltanto Andrea è nominato, l’altro discepolo resta anonimo. È come una casella vuota che ciascuno può e deve riempire. Si tratta, infatti, di ognuno di noi. L’altro discepolo sono io, tu, ecc. 
Giovanni fissa lo sguardo su Gesù, cioè lo guarda dentro, lo guarda con intensità e penetrazione (il verbo del testo originale è emblépein), lo contempla nell’intimo; coglie quindi la vera identità di Gesù, e la esprime con l’immagine dell’agnello di Dio. 

A coloro che in quel momento ascoltavano Giovanni (ma anche a noi) quella immagine evocava immediatamente l’agnello pasquale il cui sangue, posto sugli stipiti delle case, in Egitto aveva risparmiato i loro padri dall’eccidio dell’angelo sterminatore. Il Battista ha intravisto che Gesù un giorno sarebbe stato immolato come agnello e il suo sangue avrebbe tolto alle forze del male la capacità di nuocere; il suo sacrificio avrebbe liberato l’uomo dal peccato e dalla morte. L’evangelista Giovanni ha voluto certamente richiamare questo stesso simbolismo, notando che Gesù è stato condannato a mezzogiorno della vigilia di Pasqua (cfr. Gv 19,14), precisamente nell’ora in cui, nel tempio, i sacerdoti cominciavano a immolare gli agnelli.
Il profeta Isaia, però, aveva già parlato del Servo del Signore e della sua morte ignominiosa, dicendo: “Era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori… è stato annoverato fra gli empi, mentre invece portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori” (Is 53,7.12).
In questo testo, l’immagine dell’agnello è collegata alla distruzione del peccato.
Giovanni Battista voleva dunque dire che Gesù si farà carico di tutte le debolezze, di tutte le miserie, di tutte le iniquità degli uomini e, con la sua mitezza, con il dono della sua vita, le annienterà. Non eliminerà il male concedendo una specie di amnistia, una sanatoria; lo vincerà introducendo nel mondo un dinamismo nuovo, una forza irresistibile, il suo Spirito, che porterà gli uomini al bene e alla vita.
Ancora prima la Scrittura ci parla del sacrificio di Abramo: mentre era in cammino verso il monte di Moria, Isacco chiese al padre: «Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?». Abramo rispose: «Dio stesso provvederà l’agnello» (Gn 22,7-8).
Eccolo l’agnello di Dio! – attesta ora il Battista – è Gesù, donato da Dio al mondo perché sia sacrificato in sostituzione dell’uomo peccatore meritevole di castigo. Gesù è il figlio unico, l’amato, colui che porta la legna dirigendosi al luogo del sacrificio, come era avvenuto per Isacco. I rabbini poi commentavano anche che Isacco si era offerto spontaneamente; invece di fuggire, si era consegnato al padre per essere legato sull’altare. Anche Gesù ha donato liberamente la sua vita per amore.

Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?».
Queste sono le prime parole che Gesù pronuncia nel vangelo di Giovanni. Non chi, ma che cosa. La domanda non è generica, ma provocatoria. Gesù non chiede: cercate me?, come sarebbe ovvio. La sua domanda è un’altra: che cosa sperate di ottenere?, che cosa vi ripromettete da me? È una domanda e allo stesso tempo una provocazione a prendere coscienza del vero oggetto della propria ricerca. Ogni discepolo deve chiedersi cosa si attende da Cristo, per non inseguire illusioni e alimentare vane speranze.

«Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete».
I due discepoli si informano sulla dimora di Gesù: vogliono parlare con Lui con calma e sapere qualcosa di più preciso sul suo conto. Il loro interesse è la sua persona. La testimonianza del Battista ha additato Gesù; così è di ogni testimonianza. E la ricerca dei due discepoli è una ricerca di Gesù; così è di ogni vera ricerca. Gesù ha iniziato il dialogo con una domanda (che cosa cercate?), e poi continua con un imperativo (venite) e una promessa (vedrete). Cercare, venire, vedere sono tre tappe del cammino verso Cristo, che come sempre comporta anche un distacco. I Sinottici parlano del distacco dal lavoro e dalla casa; Giovanni invece parla del distacco dal precedente maestro. Infatti i due discepoli lasciano il Battista per seguire colui che egli gli ha indicato: un modo concreto per dire che Gesù è il più grande. E anche per dire che il testimone indica e poi si tira da parte, come sempre. Il vero Maestro è solo Gesù.

Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui.
Cosa quei discepoli dissero a Gesù, e cosa Egli disse loro, non lo sappiamo; sappiamo però che quel giorno rimasero con lui, anzi che decisero di rimanere con lui tutta la vita. 
Non basta un incontro furtivo con Gesù per scoprire la sua identità; è necessario rimanere con lui, passare l’intera giornata, dedicargli la giornata della nostra vita, trascorrere ogni istante della nostra esistenza nella sua casa, con Lui. 

«Abbiamo trovato il Messia».
I due che sono andati da Gesù, che hanno visto e sono rimasti con lui e sono giunti a una comprensione più profonda della sua identità, ora non possono più tenere per sé la scoperta che hanno fatto, sentono il bisogno impellente di comunicarla ad altri. I discepoli fanno discepoli. 
Andrea, il primo che, nel vangelo di Giovanni, riconosce Gesù come Messia, ne parla al fratello Simone e lo conduce dal Maestro che, fissando lo sguardo su di lui, esclama: «Tu sei Simone, ti chiamerai Cefa, che vuol dire Pietro» (v. 42).
Fissando lo sguardo. Abbiamo nuovamente lo stesso verbo dell’inizio del brano (emblépein). Sono le uniche due volte che, nel Vangelo di Giovanni, ricorre questo verbo. Prima il Battista ha guardato dentro Gesù, ora è Gesù che, con lo sguardo di Dio, penetra nel cuore di Pietro, ne coglie l’identità e gli dà il nome che definisce la sua missione. Per i pescatori del lago, Simone era il figlio di Giovanni; per Gesù egli si chiama Pietro, perché la sua vocazione è essere pietra viva che mantiene salda la Chiesa nell’unità della fede.

Dobbiamo allora concludere che quando Gesù chiama, Egli cambia l’identità dei chiamati. San Marco (cfr. 1,16ss.) ci racconta come, di lì a poco, i discepoli abbandonarono il loro mestiere di pescatori, diedero l'addio chi al proprio padre, chi alla propria moglie, e rimasero alla sequela di Gesù, divennero suoi amici e bevvero il calice del Signore; diventarono suoi testimoni e spinsero la fedeltà al Maestro che li ha chiamati fino alla testimonianza suprema del martirio. Dinanzi al Sinedrio gli apostoli dichiareranno: “Non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato” (Atti 4, 20). 

Il discepolo è, dunque, un seguace-imitatore di Cristo, un suo testimone sino alla effusione del sangue. La imitazione e la sequela del Maestro trova il suo culmine e il suo più alto grado di verità nel martirio.  Sempre così. Noi avvertiamo ancora le voci commoventi dei martiri, come per esempio quella di san Policarpo, discepolo dell’Apostolo Giovanni. Gli Atti del Martirio attestano che il proconsole esorta Policarpo con le parole: «Giura e ti libererò; insulta Cristo». Rispose Policarpo: «Da ottantasei anni lo servo e non mi ha fatto mai del male; e come potrei bestemmiare il mio re e il mio salvatore?... Ti illudi che io giuri sulla fortuna di Cesare; se fai finta di non sapere chi io sia, ascolta dunque quel che ti dico con franchezza: sono discepolo di Cristo». Un araldo allora attraversa lo stadio gridando tre volte: «Policarpo ha confermato di essere discepolo di Cristo». Poco dopo, il vescovo moriva sul rogo con questa preghiera sulle labbra: «Signore, Dio onnipotente, ti benedico perché mi hai reso degno di essere annoverato nel numero dei testimoni e di condividere il calice del tuo Cristo». 
Eusebio di Cesarea, nella sua Storia ecclesiastica (V, 1, 1-2) riferisce che tra i martiri di Lione del 177 ce n'era uno chiamato Santo. I carnefici lo torturavano per strappargli qualche frase compromettente, ma non riuscivano a fargli dire né il suo nome, né quello della nazione o della città, né se era schiavo o libero. «A tutte le domande rispondeva in latino: sono discepolo di Cristo (christianus sum). Questo era il suo nome, la sua città, la sua stirpe, il suo tutto».
Sant'Ignazio d'Antiochia definisce il suo viaggio verso Roma per essere dato in pasto alle fiere nell'anfiteatro Flavio come «un andare verso Cristo», un raggiungere Cristo. Quel viaggio dall'oriente verso l'occidente gli appare come quello del sole che va verso il tramonto, per risorgere ancora: «È bello — dice — tramontare in Dio per ritrovarmi poi con Cristo». Quindi egli scrive ai cristiani: «Perdonatemi fratelli: io so cosa mi conviene; ora comincio ad essere un vero discepolo di Gesù; nessuna cosa visibile o invisibile mi impedisca di raggiungere Gesù Cristo: il fuoco, la croce, le belve e gli strazi, le ferite, gli squarci, le slogature, le mutilazioni, lo stritolamento di tutto il corpo, i più malvagi tormenti del demonio vengano su di me, purché io raggiunga Gesù Cristo. Io cerco colui che mori per noi; è lui che voglio, lui che è risorto per noi» (Lettera ai Romani, 5).

Ecco cosa significava per i primi cristiani e cosa significa per i martiri di oggi essere discepoli di Gesù. Pensiamo al Vescovo Oscar Arnulfo Romero (1980), ai Martiri Trappisti di Tibhirine in Algeria (1996), a Shahbaz Bhatti (2011), a padre Jacques Hamel (2016), e tanti altri ancora.
I martiri ci insegnano il genuino contenuto del nome «cristiano» che esprime la nostra vera identità. 
Essere discepoli di Gesù di Nazareth, ieri come oggi e come sempre, significa essenzialmente due cose: primo, imitare Cristo, cioè mettersi alla sua sequela e imparare da lui; secondo, testimoniare Cristo, dire al mondo chi egli è, che cosa è stato ed è per noi, fare altri discepoli. Tutto questo a cominciare dalla propria casa; le prime persone alle quali Andrea e Giovanni andarono a raccontare la loro scoperta furono i propri fratelli; essi non si vergognarono di parlare di Gesù in casa! 
Questo è il punto, anzi è il punctum dolens. Oggi ci sono troppe persone che si vergognano di parlare di Gesù, a casa e fuori casa. Troppe persone hanno vergogna di Cristo, troppe persone hanno vergogna di dirsi e soprattutto di essere cristiani. Potremmo esserci anche noi tra queste. Dobbiamo fare un approfondito esame di coscienza.
Non vergognarti della testimonianza da rendere al Signore nostro, scrive Paolo nella seconda lettera a Timoteo (1,8). Dobbiamo vincere la vergogna di dire la nostra fede. Sta scritto: «Chi si vergognerà di me e delle mie parole, di lui si vergognerà il figlio dell’uomo, quando verrà nella gloria» (Lc 9, 26).
Se per noi il Vangelo è realmente la buona notizia, la grande notizia, il primo dono, esso sarà la felicità della nostra vita, e noi non ci vergogneremo di essere felici, non ci vergogneremo di annunziare Colui che è all’origine della nostra gioia, di rendere ragione della speranza che è in noi, sempre decisi e determinati (hétoimoi) prós apologhían, cioè per la difesa di Cristo (cfr. 1Pt 3,15). Allora noi non potremo non comunicare quella notizia buona; nulla ci impedire di essere testimoni dell’Amore. 
Se invece l’essere cristiano è solo un fatto abitudinario ridotto alla banale e annoiata osservanza di alcuni doveri religiosi, se il Vangelo è solo un elemento della nostra eredità culturale, allora sì che ce ne vergogneremo, perché la scelta di Cristo è sempre una operazione controcorrente.

La testimonianza cristiana è una evidenza; se non è evidente, non è testimonianza. È necessario perciò essere riconoscibili a prima vista come discepoli di Gesù di Nazareth. «È meglio essere cristiano senza dirlo, che dirlo senza esserlo» (s. Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini, 15, 1).
È impegnativo farsi riconoscere per discepoli. Bisogna sempre accettare il rischio di essere «scacciati dalla sinagoga», cioè di essere boicottati, emarginati, segnati a dito, o guardati come persone dalla psicologia malsana. Il processo su Gesù continua dinanzi al gran sinedrio del mondo. Anche oggi, il mondo interroga Gesù riguardo ai suoi discepoli (Gv 18, 19). Ma interroga anche i discepoli riguardo a Gesù; guai a rispondere: Non lo conosco! Non assumiamoci questa tremenda responsabilità rincorrendo le mode del momento e adeguandoci al politicamente corretto. In questo caso, anch'egli un giorno sarà costretto a dirci: Non vi conosco (Mt 25, 12). 

                                                                       *** *** ***

La seconda lettura (1Cor 6,13-15.17-20) ci insegna come essere discepoli di Gesù nell’ambito del dominio di sé e del rispetto del retto ordine nella vita sessuale, giacché — dice san Paolo — il nostro corpo appartiene al Signore ed è destinato alla risurrezione e non ci è dato, perciò, per farne strumento di un piacere fine a se stesso. Quello di san Paolo è un discorso della massima attualità nella nostra epoca di facili costumi e di tanta immoralità.
L’Apostolo si rivolge ai cristiani che vivevano a Corinto, una città di cattiva fama, nella quale non c’era moralità, non c’era legge, e dove si riteneva che tutto fosse permesso. Addirittura era stato coniato il verbo “corinzeggiare”, che significava “vivere come i Corinzi”, cioè “darsi alla bella vita”, e corrispondente grosso modo al nostro linguaggio “andare a donne”. 
Alcuni cristiani reagivano a quel costume degradato in maniera esagerata, con una ascetica radicale che riteneva necessaria l’astinenza sessuale totale: “E’ bene per l’uomo che non tocchi donna” (7,1). Altri invece risentivano della mentalità comune e del libertarismo più sfrenato, espresso dallo slogan “Tutto mi è lecito” (6,12). 
San Paolo si oppone con vigore all’una e all’altra posizione, e per quanto riguarda l’idea del tutto è lecito afferma che però non tutto è vantaggioso. «Tutto mi è lecito!». Sì, ma non mi lascerò dominare da nulla (6,12). La libertà come la intendevano i Corinti era in realtà un libertarismo individualistico; era una libertà sganciata dalla verità e dalla responsabilità morale; una libertà ridotta a pura licenza, a soggettivistico arbitrio individuale: non una libertà intesa come compito morale, ma come potere illimitato dell’individuo.
Questa, purtroppo, è anche la mentalità di oggi, anch’essa fortemente segnata da un individualismo libertaristico, che porta ritenere come vero, autentico e buono tutto ciò che piace, tutto ciò che sgorga dalle scelte spontaneistiche dell’individuo. È la libertà staccata dalla verità morale, totalmente opposta all’insegnamento evangelico, in cui si afferma invece che senza verità non c’è libertà, perché solo la verità ci può fare liberi (cfr. Gv 8,32). 
Anche san Paolo rifiuta quest’idea di libertà individualistica di chi agisce solo per se stesso, noncurante della verità morale. Una tale concezione può degenerare facilmente in schiavitù. Noi siamo certamente in grado di dominare le cose del mondo, ma altrettanto certamente possiamo esserne dominati, specialmente quando non prendiamo atto del fatto che la nostra libertà non è qualcosa di assoluto, ma è un dono che ci è stato fatto per realizzare il bene e vivere nell’amore.
I Corinti dicevano anche: «I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi!», quasi a voler affermare che la soddisfazione del corpo è una semplice risposta a dei bisogni fisiologici. Questo però mortifica il significato del corpo e lo riduce ad un mero strumento guidato da pulsioni e privo di significati. Al contrario, Paolo afferma che il corpo è “per” il Signore e il Signore per il corpo. 
Ancora di più: Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? 
Con questo interrogativo l’Apostolo passa dalla realtà del corpo fisico del cristiano alla realtà «sacramentale» del Corpo di Cristo, cioè la Chiesa. Se i corpi costituiscono le membra di Cristo, allora tutti i corpi dei cristiani formano il Corpo di Cristo, che non può entrare in contatto con il corpo di una meretrice: «Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di meretrice? Non sia mai!» (v. 15). L'unione con la prostituta da parte di coloro che sono già membra di Cristo compromette il rapporto di intima unione delle stesse membra con il corpo di Cristo. Paolo quindi fa capire che un rapporto sessuale implica un profondo livello di comunione e di unità. I cristiani, pertanto, non possono rinunciare a essere membra di Cristo per diventare membra di una prostituta. Il messaggio è chiaro e forte, ma Paolo lo rafforza ancora di più riferendosi al racconto della Genesi, quando Adamo, dopo la creazione della donna, afferma: «Questa volta è osso delle mie ossa e carne della mia carne! Costei si chiamerà donna perché dall'uomo fu tratta» (Gen 2,23). E l’autore sacro aggiunge: «Per questo l'uomo abbandona suo padre e sua madre e si unisce alla sua donna e i due saranno una sola carne» (Gen 2,24). Proprio perché l'unione sessuale è così intima e profonda, e tende a fare dei due «una sola carne» o «un solo corpo», essa non può avvenire con una prostituta, rischiando di trasformare, come prima si era detto, le membra di Cristo in membra di prostituta. 
L'unione dei cristiani con il Signore uno statuto ancora più alto: quello spirituale. Infatti: «chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito».
Ecco, allora, il significato vero del corpo, che rende intollerabile la pratica della prostituzione, ovvero un uso del corpo contrario al significato che è iscritto in esso. Il corpo non è per nulla solo una funzione biologica priva di significati: può significare il legame con l’immoralità e l’idolatria, oppure l’appartenenza al Signore. Di qui, il rispetto dovuto al corpo e la gravità del male commesso contro il corpo. 

Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi. 
Il corpo è sacro e intoccabile perché è il tempio di Dio e chi lo danneggia o lo distrugge, si attirerà da Dio stesso la distruzione (cfr. 1Cor 3,17). Il corpo del cristiano è il tempio di Dio e partecipa della sua santità. Di conseguenza, se viene meno la santità con pratiche sessuali immorali è come se si distruggesse lo stesso tempio. «Chi si dà all'immoralità pecca contro se stesso» (1Cor 6,18 Traduzione Interconfessionale).

Siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo!
L’opera della redenzione (da redimere, composto da re = di nuovo, e emere = comprare) è un acquisto a caro prezzo: la somma sborsata da Cristo è il suo sangue. Avendoci Egli comprati, siamo diventati sua proprietà. Cristo possiede il cristiano. La libertà cristiana va intesa all'interno di questo possesso. Una libertà che porta fuori da questo dominio di Cristo non conduce al bene integrale della persona; spesso, anzi, porta alla schiavitù. L'esercizio di una libertà senza criteri che si trasforma in dominio, blocca la potenzialità umana di fare il bene e fa perdere all’uomo il bene di quella comunione di amore che egli ha con il Signore.
Il corpo del cristiano appartiene a Cristo, e ha una finalità dossologica: va usato per glorificare il Signore. Il nostro corpo è, ad un tempo, strumento e luogo di culto. Perciò «il fatto che siamo stati comprati a caro prezzo (1Cor 6,20), cioè a prezzo della redenzione di Cristo, fa scaturire appunto un impegno speciale, ossia il dovere di mantenere il proprio corpo con santità e rispetto. La consapevolezza della redenzione del corpo opera nella volontà umana in favore dell’astensione dalla "impudicizia", anzi, agisce al fine di far acquisire un’appropriata abilità o capacità, detta virtù della purezza» (san Giovanni Paolo II, La virtù della purezza attua la vita secondo lo Spirito. Udienza generale: 11 febbraio 1981 [qui]).

Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per offrirti servizi in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie clicca qui. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento acconsenti all’uso dei cookie.
Do il consenso