R. Cantalamessa
Ritiro di Avvento alla Curia Generale dei Cappuccini
Roma 5 dicembre 2017
(Fonte: Archivio www.ofmcap.org)
L’Avvento liturgico inizia con l’invito accorato di Cristo: “Vegliate!” Ricordiamo le ultime parole del vangelo di domenica scorsa:
Vigilate dunque, poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, perché non giunga all’improvviso, trovandovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate!». (Mc 13, 35-37)
Il tema della vigilanza suppone tutta una visione del mondo e un giudizio su di esso. Il tempo presente è una notte. La vita è un lungo sonno, l’attività frenetica che in essa svolgiamo, al di fuori della fede, è in realtà un sognare. Un celebre dramma di Calderòn de la Barca è intitolato: “La vita è un sogno!” Da sempre e in tutte le culture si è soliti associare l’idea del sonno a quella della morte. (Noi italiani conosciamo l’inizio della celebre poesia di Ugo Foscolo, intitolata “I Sepolcri”: All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne… è forse il sonno della morte men duro?”). Ma nella Bibbia non è così. In essa il sonno non è associato il più delle volte all’idea della morte, ma a quella della vita, alla vita che viviamo nella carne.
La vita è davvero un sogno!
Del sogno la nostra vita riflette alcune caratteristiche. La prima è la brevità. Il sogno avviene fuori del tempo. Situazioni che richiederebbero giorni e settimane di tempo avvengono nel sogno in pochi minuti. Anche la nostra vita passa presto. Dice un salmo:
Gli anni della nostra vita sono settanta,
ottanta per i più robusti,
ma quasi tutti sono fatica, dolore;
passano presto e noi ci dileguiamo (Sal 89,10).
L’altra caratteristica è l’irrealtà. “Avverrà - si legge in Isaia - come quando un affamato sogna di mangiare, come quando un assetato sogna di bere, ma si sveglia stanco, con la gola riarsa” (Is 29,8). Cosa sono ricchezze, salute, gloria, se non un sogno? Ecco che un povero, diceva S. Agostino, una notte, sogna di essere ricco. Esulta nel sonno, si pavoneggia, disprezza perfino il proprio padre e fa finta di non riconoscerlo. Ma poi si sveglia e ritrova intatta la sua povertà, mentre della ricchezza del sogno nulla: era tutta irrealtà. Quando il ricco di questo mondo muore è come il povero che si sveglia dopo aver sognato di essere ricco. Così succederà ai miliardari di oggi.
C’è una sola caratteristica che la vita non condivide con il sogno ed è l’irrilevanza. Tu puoi avere ucciso, rubato, nel sogno: non resta traccia, non incide sul resto della tua vita; non devi pagare. Non così con la vita, non così. “Dio renderò a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverano nel bene, sdegno, ira contro coloro che resistono alla verità” (cf Rm 2,5-10).
La motivazione evangelica della vigilanza.
Nel vangelo la vigilanza non è solo un tema morale e sapienziale. Esso scaturisce dal vivo del mistero di Cristo e dal kerigma. E il kerigma, in questo caso, è racchiuso tutto in quella frase del Credo: “E di nuovo tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti”. “Tornerà!” La vigilanza prende valore dal motivo per cui si veglia. Veglia anche il donnaiolo, osservava già sant’Agostino, e veglia il ladro, ma non è buono certo il loro vegliare. D’altra parte, c’è un dormire che è dono di Dio. La notte, dice Charles Péguy in una sua poesia, è “tra le più belle invenzioni di Dio”.
La motivazione della vigilanza inculcata da Gesù è quella escatologica: l’attesa del suo ritorno. “Vegliate dunque perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà” (Mt 24,42). Con questa promessa del suo ritorno, Cristo dava alla storia il suo nuovo e definitivo orientamento; le dava un traguardo, un punto di approdo. Prima di lui, il traguardo cui tutti tendevano era la venuta del Messia. Ora che questo traguardo era stato raggiunto, che cosa aspettare? Dove guardare? Continuerà la storia a girare a vuoto o su se stessa? Gesù indica un nuovo traguardo, orienta l’umanità verso il suo ritorno.
Importante, nei discorsi di Gesù, non è il “quando” ciò avverrà (su cui anzi scoraggia in tutti i modi dallo speculare), ma è “il fatto che” avverrà, che ci sarà una venuta. Alla luce di questa verità, il cristiano sulla terra somiglia, potremmo dire, a un girasole. Il girasole durante il giorno, quando il sole è presente nel cielo, sta rivolto verso il sole, si converte continuamente verso di lui. Quando il sole tramonta e scompare, il girasole si volge nella direzione da dove il sole deve rispuntare e sta tutta la notte così, come in attesa. Gesù vuole che i suoi discepoli, dopo che sarà scomparso da loro, si comportino allo stesso modo: rivolti con il cuore e il desiderio là da dove Egli alla fine riapparirà.
Ma non è neppure solo questa venuta finale che motiva la vigilanza del discepolo. Gesù stesso, in diversi modi, ha fatto capire che c’è una venuta, un suo ritorno particolare e personale che ha luogo al momento della morte. Il mondo passa per me nel momento in cui io passo dal mondo. Più “fine del mondo” di questa! “Stolto - si sente dire da Dio il ricco della parabola - questa notte stessa ti verrà chiesto conto della tua vita” (Lc 12,20). Morì il povero Lazzaro e fu portato nel seno di Abramo. Morì il ricco e fu sepolto e, stando nell’inferno, tra i tormenti, gridò (cf. Lc 16,22 s.). Tutto è già deciso per costoro; non c’è da aspettare nulla di nuovo. Per essi il Figlio dell’uomo è già venuto. Quanto è sciocco il mondo quando si consola pensando che, tanto, nessuno sa quando sarà la fine! Ci sono tante fini del mondo quante sono le persone che muoiono. Oggi stesso è la fine del mondo per centinaia di migliaia di persone.
Del resto, il Figlio dell’uomo viene anche in un altro modo, mentre siamo ancora in vita, e bisogna vigilare per non mancare all’appuntamento. San Bernardo parla di una venuta intermedia, occulta di Cristo che si situa tra la prima nell’umiltà e l’ultima nella gloria. “Conosciamo - dice - una triplice venuta del Signore. Una venuta occulta si colloca infatti tra le due altre manifeste”. E’ quella visita discreta che faceva dire ad Agostino: “Ho paura del Gesù che passa” (“Timeo Iesum transeuntem”). Quella di cui Gesù stesso parlava quando, rivolto alla città di Gerusalemme, esclamò con tristezza: Se avessi riconosciuto il tempo in cui ti ho visitato! Ma ecco esso è rimasto nascosto ai tuoi occhi (cf. Lc 19,41 ss.).
Questa, dunque, la motivazione fondamentale della vigilanza evangelica: la venuta di Cristo, sia quella finale, sia quella attuale. Da essa dipende tutto, perché dipende l’eternità. Nessun altro motivo è più forte di questo, nessuna vigilanza perciò più necessaria di questa. Né quella della sentinella che custodisce la città, né quella del padrone che difende i suoi beni. Vigilate! più che un ordine, un’espressione di autorità, è un invito, un appello accorato. Dio ha paura di perderci, per questo ci parla così.
Cosa significa vigilare.
L’imperativo: Vigilate! non è un vuoto grido di allerta per quanto accorato. Gesù dice anche cosa significa vigilare, quali ne sono i contenuti concreti. Quasi sempre vigilate è accoppiato con un altro verbo che ne specifica il senso: Vigilate e state attenti. Vigilanza è attenzione, cioè concentrazione della mente e di tutta l’anima su una cosa, che fa passare tutto il resto in secondo piano, come chi concentra la vista su un punto, lasciando nell’ombra il resto. Noi dobbiamo essere come persone che prendono la mira, che fissano un bersaglio. Pensiamo a un cacciatore che prende la mira. Quale attenzione, quale concentrazione! Ecco, così, ci dice Gesú, dovremmo essere noi per non fallire il bersaglio di tutta la vita, che è l’eternità.
Ciò che si esclude è la dissipazione, la spensieratezza, il vivere all’insegna della locuzione swahili, comunissima in molte regioni dell’Africa centro-orientale, Hakuna matata, cioè “senza pensieri”, oppure “non ci sono problemi”.
Viviamo in un mondo distratto, malato di chiasso. Gesù porta l’esempio di ciò che avveniva al tempo di Noè e al tempo di Lot. La gente era indaffaratissima: mangiavano, bevevano, prendevano moglie e andavano a marito, ma non si accorgevano che cosa stava addensandosi sulle loro teste (cf Lc 17, 22 ss; Mt 24,37 s.). L’attenzione è una delle cose che Dio più domanda all’uomo. Uno degli scopi dei miracoli è richiamare l’attenzione degli uomini perché ascoltino e si accorgano. Dio fa come il maestro che batte forte le mani per richiamare l’attenzione della scolaresca distratta.
Una seconda associazione di verbi è: Vigilate e state pronti (cf. Mt 24,44; Lc 12,40). Il tema della prontezza, Gesù lo illustra con l’immagine del portiere e del maggiordomo che vegliando sono pronti ad aprire quando il padrone torna (cf. Mc 13,34; Mt 24,45 ss.). Una terza associazione che spiega il significato della vigilanza è: Vegliate e pregate (Mt 26,41;Mc 13,33; Lc 21,36). E’ il contenuto principale della vigilanza. L’attività più caratteristica della veglia è la preghiera. Pregare è essere a presenti al presente; è stare alla presenza di Dio che è la forma più alta di vigilanza. Tra il chiasso delle voci che ci assalgono da tutte le parti e ci distraggono, vigilare significa imporre silenzio a tutti e a tutto, come chi circondato da una folla che lo preme da tutte le parti, si mette di colpo il dito sulle labbra e intima silenzio, perché ha udito il richiamo di una voce che non vuole perdere.
“E’ ora di svegliarci dal sonno!”
A un certo punto della predicazione apostolica, dopo la Pasqua, vediamo il tema della vigilanza assumere un aspetto nuovo e drammatico e da designazione di uno stato diventare designazione di un atto. Al posto dell’imperativo: “Vegliate!”, subentra l’imperativo: “Svegliatevi!”. Svegliarsi è’ un atto che crea una differenza, indica cambiamento, crisi, con una parola più tradizionale: conversione. Basta pensare alla differenza che c’è tra un attimo prima e un attimo dopo che uno si è svegliato da un sonno profondo, per rendersi conto di ciò che questa parola significa sul piano spirituale.
Ascoltiamo subito uno di questi gridi di risveglio. Si legge nella lettera di san Paolo ai Romani:
“Questo voi farete, consapevoli del momento (kairòs). E’ ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché ora la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Rm 13,10-14).
Questo energico e brusco richiamo lascia intravedere una triste realtà di fatto. La vita dei cristiani è esposta costantemente al risucchio del mondo e del modo di vivere pagano. All’inizio della sua parenesi in Romani 12,2, san Paolo aveva raccomandato: “Non conformatevi a questo mondo”; altrove aveva detto questa stessa cosa servendosi dell’immagine del sonno: “Non dormiamo come gli altri” (1 Ts 5,6). Ora precisa in che consiste questo conformismo con il mondo e questo sonno. Consiste nel soddisfare le passioni e le voglie disordinate e egoistiche dell’uomo vecchio, gli eccessi di ogni genere: nel mangiare, nel bere, nella vita affettiva e sessuale, nel parlare, nei rapporti con il prossimo.
In natura esiste un insetto, la mosca Tze Tze, nota per il suo terribile potere di far precipitare il disgraziato a cui si attacca in un sonno mortale. Sul piano spirituale un potere altrettanto nefasto di far cadere nel sonno, lo possiede il mondo con le sue concupiscenze. Come si griderebbe con forza: Sveglia! a una persona cara che si vedesse in procinto di essere morsa da uno di questi insetti o da un serpente, così gli Apostoli gridano: Svegliatevi!, ai cristiani in procinto di essere riassorbiti dal mondo.
In un contesto assolutamente simile, l’apostolo Pietro lancia ai fedeli questo grido: “Basta col tempo trascorso nel soddisfare le passioni del paganesimo, vivendo nelle dissolutezze, nelle passioni, nelle crapule, nei bagordi, nelle ubriachezze e nel culto illecito degli idoli” (1 Pt 4,3). “Non correte con loro verso questo torrente di perdizione” (Ib. 4,4). Cioè andate contro la corrente del mondo, perché esso corre verso la propria perdizione.
Oggi abbiamo un’immagine nuova per descrivere questa azione del mondo, il virus dei computer. Il virus, per quel poco che ne so io, è un piccolo programma malignamente predisposto, che penetra in un computer per le vie più insospettate e che una volta penetrato in esso, ne confonde o blocca il normale funzionamento, alterando i cosiddetti “modelli operativi”. Lo spirito del mondo fa lo stesso. Penetra in noi in mille modi, con l’aria stessa che respiriamo, e, una volta dentro, cambia i nostri modelli; al modello “Cristo”, sostituisce il modello “mondo”.
“Questo voi farete - diceva l’Apostolo - consapevoli del momento”. Ciò che determina la necessità e l’urgenza del risveglio è, ancora una volta, quello che l’Apostolo chiama il kairòs, il momento particolare in cui i cristiani si trovano a vivere. E’ l’ora stessa che esige che ci si svegli. Perché questo? Che ora è nell’orologio della storia? E’ l’ora escatologica! Quella che i profeti chiamavano “quel giorno”, o “gli ultimi giorni”. L’ora che ha visto compiersi il tempo (cf. Mc 1,15), venire il Regno; l’ora che esige la decisione, il salto. Come il prigioniero che vede ad un tratto aprirsi la porta della cella e cadere le catene e dice a se stesso: “O ora, o mai più!” e si slancia fuori.
Non si tratta di un’ora ferma, ma in movimento, un’ora che si protende verso un compimento che è il giorno del Signore, o del suo ritorno. Per questo l’Apostolo può dire: “La nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti...Il giorno si avvicina”. Ogni giorno che passa, ogni minuto, ci avvicina a quella conclusione, come momento per momento l’acqua di un fiume si avvicina al mare. Non c’è arresto possibile. L’unico arresto è quello che consiste nel non pensarvi, appunto, nel dormire. Dormendo non ci si accorge del tempo che passa, e del pericolo che incombe, ma non per questo il tempo cessa di passare e il pericolo di incombere.
La notte che affondò, in pieno oceano, il famoso transatlantico Titanic, avvenne una cosa del genere. C’erano stati, come oggi si sa, messaggi via radio da parte di altre navi che segnalavano un iceberg sulla rotta. Ma sulla nave era in atto una festa danzante; non si volle turbare i passeggeri. Non si prese nessun provvedimento, rimandando la cosa al mattino dopo. Ma intanto nave e iceberg stavano marciando a grande velocità l’una verso l’altro, finché ci fu un boato che scaraventò tutto in aria e cominciò il grande naufragio.
E’ un’immagine di ciò cui sta andando incontro chi dorme nel peccato, dimentico dell’ora che si avvicina. E’ un’immagine che richiama quello che Gesù diceva del tempo di Noè: mangiavano, bevevano, danzavano, cantavano, finché arrivò il diluvio e li inghiottì tutti (cf. Mt 24, 37-39).
“Se questi e queste, perché non anch’io?”
Come possiamo accogliere, in questo tempo, il grido di risveglio che lo Spirito ci fa giungere attraverso la liturgia della Chiesa? Come possiamo applicarlo a noi, e lasciarci investire da esso come in pieno viso? Lasciamoci aiutare da ciò che sant’Agostino dice nelle sue Confessioni. Agostino descrive lo stato che precedette la sua definitiva e totale resa a Dio, servendosi proprio dell’immagine del sonno. Dice:
“Come chi è oppresso dal sonno, così ero io oppresso dal peso soave del mondo; e i pensieri che rivolgevo a Te erano simili ai conati di coloro che vogliono destarsi e tuttavia, vinti, ricadono nel sonno profondo. E come non vi è nessuno che desideri di dormire sempre, anzi ogni uomo di sano giudizio preferisce essere sveglio, e non di meno, di solito, si rimanda il momento di scuotere via il sonno, quando grava pesante sulle membra, anzi lo si gusta maggiormente nel momento stesso in cui comincia a rincrescere, sebbene sia ora di levarsi, così accadeva di me. Ero ben sicuro essere meglio consacrarsi al tuo amore, che cedere alla mia passione: il primo partito mi piaceva e vinceva; il secondo mi allettava e avvinceva. Nulla sapevo io rispondere alle tue parole: ‘Svégliati, tu che dormi, sorgi dai morti e Cristo ti illuminerà’ (Ef 5,14). Convinto della verità, nulla sapevo io rispondere a te, che da ogni parte mi dimostravi essere vero quello che tu dici; nulla, all’infuori di queste parole infingarde e sonnolenti: Ora, ecco, ora, attendi ancora un poco. Ma questo ora e ora non trovava mai un’ora, e l’attendi ancora un poco andava per le lunghe”.
Si tratta di vedere se questa situazione di Agostino non é, in qualche modo, anche la nostra. Non ha importanza se a trattenerci non é lo stesso legame suo (viveva con una donna senza essere sposato), ma altri legami: con le nostre comodità, con la nostra gloria, con i nostri risentimenti, con le nostre abitudini. Non c’è uno stato nella vita spirituale in cui non ci sia più posto per una conversione e per un balzo in avanti. San Francesco d’Assisi, verso la fine della vita, una volta ebbe a dire: “Cominciamo, fratelli, a fare qualcosa per Dio, perché finora ben poco abbiamo fatto”. Nessuno dunque dovrebbe ritenersi esentato e dire che, per grazia di Dio, questo bisogno di risveglio non fa per lui.
Esistono vari gradi o livelli di sonno, tanto sul piano naturale che su quello spirituale. C’è, più profondo di tutti, il letargo e quanti cristiani vivono in esso! Sono quelli che passano mesi, anni, e forse tutta una vita immersi nel sonno del mondo e nell’oblio più totale di Dio e del proprio battesimo. C’è poi il sonno ordinario, che è un’interruzione totale della coscienza, ma breve. E c’è infine il dormiveglia, o lo stato di sonnolenza, descritto così bene sopra da sant’Agostino, ed è di questo che ora vogliamo parlare. Il dormiveglia è lo stato di chi è abbastanza desto da vedere e capire quello che dovrebbe fare, ma non tanto da decidersi a farlo. Come, appunto, chi al mattino ha udito il segnale della sveglia; sa che è ora, se lo ripete, ma indugia e ricade nel sonno.
E’ lo stato di chi tira avanti tra un debole proposito e l’altro, tra un “suvvia!” e l’altro ripetuto a se stesso, ma non fa il gesto risoluto di balzare in piedi. La vita scorre tra una confessione e l’altra in cui ci si ritrova sempre allo stesso punto. Un po’ come avviene a chi sonnecchia durante una predica o una conferenza: ogni tanto la testa gli cade sul petto, allora la rialza, ma per lasciarla ricadere di nuovo di lì a poco, perché non ha scosso veramente via da sé il sonno.
Caratteristica di questo stato, sul piano spirituale, è l’insoddisfazione e la tristezza. Non si gode del mondo perché non si è così spregiudicati da abbandonarsi del tutto alle sue lusinghe, ma non si gode neppure di Dio. Spesso non riuscendo a contenere in se stessi questa insoddisfazione e amarezza la si riversa sugli altri, su chi ci sta intorno.
Prendiamo il caso di un religioso o di un sacerdote che è in questo stato. E’ venuto in religione, o è entrato al servizio di Dio, attirato dalla perla preziosa. Ma ecco che, con il passare del tempo, ha cominciato a tornare alle cipolle d’Egitto di biblica memoria, e così a poco a poco ha finito per dimenticare tutto: chi é, da dove viene, perché è venuto. E’ spaesato, o, come si dice oggi, è in una crisi di identità.
I santi ci danno l’esempio di come si evita questo pericolo. Di un grande monaco del deserto, Arsenio, si legge che ogni tanto ripeteva a se stesso: “Arsenio, perché hai lasciato il mondo?”. Anche san Bernardo amava ogni tanto porsi la domanda: “Bernarde, ad quid venisti? Bernardo perché sei venuto?”.
Il risveglio che ci propone la parola di Dio consiste allora in questo: nel prendere, con l’aiuto di Dio e dopo aver implorato la sua grazia, la decisione ferma di rompere gli indugi e darsi completamente a Dio. Di abbandonare le mezze misure, di tagliare alle nostre spalle i ponti con il mondo. Di interrompere ogni flirt con esso, ogni amoreggiamento. Consiste nel dire anche noi, come disse a se stesso Agostino: “Fino a quando domani e domani (cras, cras), perché non ora? Perché non quest’ora stessa?” . Ma ci sarà poi per me un domani? C’è stato per tanti che ieri hanno ascoltato questo stesso invito e non si sono decisi? E se anche ci fosse, sarò io domani più pronto a dire di sì? Il mondo passa! Bisogna affrettarsi a passare dal mondo, per non passare con il mondo. Passare da esso subito con il cuore, prima di passare da esso con il corpo.
Nel corso di un anno decine e decine di figure di santi ci sfilano davanti nella liturgia, spesso nostri confratelli cappuccini. Una vera “nube di testimoni”. Li abbiamo ammirati, invidiati. Abbiamo riconosciuto con chiarezza che la loro vita era l’unica degna di essere vissuta, che hanno fatto la cosa giusta; che c’è una sola, vera, irreparabile disgrazia nella vita, come diceva Leon Bloy, ed è quella di non farsi santo.
Dopo aver dunque contemplato tante figure di santi, si tratta ora di gridare anche noi a noi stessi, come fece Agostino: “Se questi e queste, perché non anch’io? Il santo aveva ascoltato il racconto di due soldati, addetti alla persona dell’imperatore, che leggendo la vita di sant’Antonio, avevano deciso, all’istante, di abbandonare la carriera e gli onori e mettersi al servizio di Dio. Aveva saputo di giovani e ragazze che in vari luoghi abbandonavano il mondo per consacrarsi a Dio e, rivolto all’amico Alipio, esclamò:
“Ma che cos’è quello che succede? Lo senti? Sorgono gli ignoranti e i semplici e si portano via il Regno dei cieli, e noi, con la nostra scienza, privi di senno, continuiamo a voltolarci nella carne e nel sangue. Qual vergogna per noi di esserci lasciati da essi precedere! Ma quale vergogna maggiore se almeno non li seguiamo!”.
Certo se guardiamo dentro di noi, non troviamo la forza di fare un passo come questo. Ma forse che i santi che abbiamo conosciuto trovarono in sé la forza? Beato chi trova in te la sua forza - dice un Salmo - e decide nel cuore il santo viaggio (Sal 84,6). ”In te”, non “in sé”. E’ la grazia dunque che dà la forza, che crea in noi il desiderio e la nostalgia di una vita interamente spesa per Dio e per la sua gloria, senza compromessi. Quello che Dio aspetta da noi è che gli diamo il permesso, o il consenso per agire. Che gli diamo, per così dire, carta bianca, togliendo tutti i “ma”, i “purché”, che sono solo mancanze di fiducia in Dio.
Non possiamo pretendere di farci santi, a patto che nulla cambi nella nostra vita e nelle nostre abitudini. Anche Agostino sperimentò la paura e le esitazioni a fare il passo decisivo. Le antiche abitudini, dice, da dietro lo tiravano come per il lembo della veste, sussurrandogli: Attento, potrai fare a meno, d’ora in poi, di questo e di questo, e per sempre? Ma un’altra voce, mostrandogli Dio, gli diceva forte: “Géttati fra le sue braccia, non avere paura, Egli non si tirerà indietro, sicché tu cada nel vuoto... Géttati e, egli ti accoglierà” (22).
Sappiamo come la grazia gli venne in soccorso. Fu attraverso la Parola di Dio. Sentì una voce che ripeteva in canto: “Tolle, lege! Prendi, leggi!”. La prese come un invito del cielo e, avendo a portata di mano il libro delle lettere di san Paolo, lo aprì deciso a prendere come risposta di Dio il primo testo che gli fosse capitato sotto gli occhi. Lo aprì e cosa trovò? Trovò proprio il versetto che conclude il grido di risveglio di Romani 13 che abbiamo commentato sopra, quello che dice: “Non nelle gozzoviglie e nelle ebbrezze, non nelle mollezze e nelle impurità, non nella discordia e nell’invidia, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo, senza accontentare la carne nei suoi desideri”.
Una luce di sicurezza (lux securitatis), cioè una luminosa sicurezza, gli inondò il cuore e da quel momento seppe che, con l’aiuto di Dio, avrebbe potuto vivere in castità. Era un uomo nuovo. Rievocando questo momento egli lo descrive come un risveglio dal sonno: “Tu hai gridato e hai squarciato la mia sordità. Hai balenato, hai brillato e hai fugato la mia cecità. Mi hai toccato e ardo dal desiderio della tua pace”. La grazia l’aveva soccorso perché lui l’aveva invocata con tutte le forze, con preghiere e lacrime.
Domandiamoci dunque con onestà: sono pronto io a che qualcosa cambi nella mia vita? Per esempio, il tempo che dedico alla preghiera? Sono pronto a troncare la tale abitudine? A rinunciare a quel margine ambiguo di libertà? L’ostacolo principale spesso è proprio un’abitudine contratta, che rende impotente la volontà. L’abitudine addormenta la coscienza, per cui uno non sente più neppure il rimorso, crede di star benone e non si accorge che sta morendo spiritualmente. L’abitudine crea il vizio.
Bisogna spezzare la morsa dell’abitudine con un: “Basta!” come ci suggeriva sopra san Pietro. Fare subito qualcosa che spezzi l’abitudine cattiva che da tempo sentiamo di dovere spezzare. Se non si fa un atto contrario alla prima occasione, e si continua a dire come Agostino prima della conversione “cras, cras”, cioè domani, domani, nulla mai cambierà.
Il filosofo Kierkegaard, che era anche un grande credente, in uno dei suoi “Discorsi edificanti” fa questa osservazione acuta. A uno – dice – la parola di Dio ha rivelato che il suo peccato è la passione del gioco; è questo ciò che Dio gli chiede di sacrificargli. (L’esempio può essere esteso ad altre abitudini peccaminose, come la droga, disordini nel bere, nel mangiare, un rancore, il dire bugie, un’ipocrisia, una relazione illecita).
Quell’uomo, convinto di peccato, decide di smettere e dice: “Faccio voto solenne e sacro di non giocare mai più, mai più: questa sera sarà l’ultima volta!” Non ha risolto nulla; egli continuerà a giocare come prima. Egli deve dire, semmai, a se stesso: “D’accordo, tutto il resto della tua vita e tutti i giorni tu potrai giocare, ma questa sera no!”. Se egli mantiene il suo proposito e quella sera non gioca, è salvo; non giocherà probabilmente più per il resto della vita.
Maria, è l’esempio più sublime di vigilanza. Ella vegliò, sola, durante il primo Avvento della storia, quello che precedette la nascita di Cristo. Così è divenuta figura della Chiesa che attende con amore vigilante lo Sposo. Ella interceda per noi e ci ottenga la grazia di “rinnegare l’empietà e i desideri mondani e vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo” (Tt 2,12-13).