alla mensa della Parola - IV Domenica per annum – B – 2018


IL PROFETA (Prima lettura: Dt 18,15-20)
Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto.
Immediatamente prima di questa promessa, il libro del Deuteronomio proibisce la divinazione, il sortilegio, la magia, l’incantesimo, la negromanzia, ecc. Chiunque fa queste cose è in abominio al Signore. Tu sarai irreprensibile verso il Signore, tuo Dio (cfr. Deut 18,10-14).
Per contrastare l’opera disgregatrice di coloro che praticano la divinazione e la magia, vengono suscitati i profeti, di cui Mosè indica il ruolo, presentandoli come i più immediati continuatori della sua opera (vv. 15-20) e indicando i criteri a cui ricorrere per verificare la loro autenticità (vv. 21-22). 

Il Signore susciterà - Io susciterò loro un profeta. I profeti vengono «suscitati» direttamente da Dio con il compito di richiamare costantemente la fedeltà all’alleanza e il rispetto dei poveri, delle vedove, degli orfani, ecc. A differenza dei re e dei sacerdoti, i profeti non hanno ruoli istituzionali. Ma la loro voce carismatica è assolutamente necessaria; senza di essa la Chiesa e la società rischiano di crollare. Nella nostra epoca tale necessità si impone in tutta la sua urgenza ed evidenza. La Chiesa di oggi ha bisogno del carisma profetico dei santi, che con l’efficacia della loro testimonianza autentica, abbiano a snidare tutti i giochi di potere, sia a livello politico che ecclesiale, e a promuovere una effettiva riforma della Chiesa, affinché il popolo di Dio non vada in rovina. «La reformatio, quella che è necessaria in ogni tempo, non consiste nel fatto che noi possiamo rimodellarci sempre di nuovo la “nostra” Chiesa come più ci piace, che noi possiamo inventarla, bensì nel fatto che noi spazziamo via sempre nuovamente le nostre proprie costruzioni di sostegno, in favore della luce purissima che viene dall'alto e che è nello stesso tempo l'irruzione della pura libertà». Così diceva il cardinale Joseph Ratzinger al Meeting di Rimini del 1990. E proseguiva affermando che la riforma della Chiesa è un’azione simile a quella che lo scultore fa con la pietra: non un aggiungere, ma un togliere, un’«ablatio». «Riforma è sempre nuovamente una ablatio: un toglier via, affinché divenga visibile la nobilis forma, il volto della Sposa e insieme con esso anche il volto dello Sposo stesso, il Signore vivente. Una simile ablatio, una simile "teologia negativa", è una via verso un traguardo del tutto positivo. Solo così il Divino penetra, e solo così sorge una congregatio, un'assemblea, un raduno, una purificazione, quella comunità pura a cui aneliamo: una comunità in cui un "io" non sta più contro un altro "io", un "sé" contro un altro "sé"». «Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana».

Un profeta pari a me: dice Mosé. I profeti suscitati da Dio saranno «simili a Mosè», cioè avranno le sue stesse prerogative: i veri continuatori dell’opera del grande condottiero e legislatore non saranno i re o i sacerdoti, ma uomini scelti volta per volta da JHWH e dotati di un carisma particolare. Ciò comporta un privilegio e un rischio, che si sono ambedue concretizzati specialmente nel regno di Israele: da una parte la convinzione che sia Dio a guidare il suo popolo medianti i suoi inviati pone dei limiti al potere del re e delle classi dominanti, mentre dall’altra crea condizioni di grande instabilità politica. 
La figura di Mosè è paradigmatica per ogni profeta. Essi devono essere simili a Mosé; debbono imitarlo. Mosé è esempio per ogni “profeta”: si è comportato da portavoce di Dio (v. 16). Di fronte alla terribile maestà del Signore, il popolo si era spaventato e aveva chiesto che la parola di Dio non gli fosse comunicata direttamente, ma gli venisse trasmessa da un mediatore. Mosè salì sul monte, incontrò il Signore, udì la sua voce, poi discese e riferì al popolo ciò che aveva ascoltato.
Il profeta è colui che “sale sul monte”, assiste, in certo qual modo, al “consiglio divino” (Am 2,7), vive in costante dialogo con Dio, ne assimila pensieri e sentimenti e ha poi la capacità e il coraggio di trasmetterli al popolo, anche se sono in contrasto con il buon senso umano.
Il libro dell’Esodo riferisce che «quando Mosè scese dal monte Sinai non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con lui. Ma Aronne e tutti gli Israeliti, vedendo che la pelle del suo viso era raggiante, ebbero timore di avvicinarsi a lui» (Es 34,29-30). Alla stregua di Mosé, profeta è colui che ha visto Dio e ha conversato con lui. Per questo in Israele il profeta veniva chiamato anche "veggente" (cfr. 1Sam 9, 9.11; 18,19), indicato come colui che ha avuto delle visioni (visionario) (cfr. Am 7,12; Mi 3,6-7) e "sognatore" (cfr. Nm 12,6; Dt 13,2).

Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli. Il profeta è un uomo del popolo, un fratello tra i fratelli, cui il Signore comunica i suoi pensieri e i suoi disegni e gli affida il compito di rivelarli ai fratelli, senza nulla aggiungere e nulla togliere (vv. 15.18). 

Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”.
Questa osservazione che motiva la promessa iniziale fatta da Mosé (Il Signore susciterà un profeta) si riferisce alla teofania avvenuta ai piedi del Sinai, che nel Deuteronomio viene chiamato Oreb. In quella occasione il popolo, impaurito dai lampi e dai tuoni mediante i quali Dio si faceva sentire e dettava personalmente il decalogo, aveva chiesto a Mosè di parlare lui in nome di Dio (cfr. Es 20,19). Ciò è quanto Mosè aveva fatto durante la sua vita e i profeti faranno dopo la sua morte.

Io gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Profeta, quindi, non è tanto colui che «parla prima», cioè predice il futuro, sebbene sia anche questo un compito affidato al profeta, quanto piuttosto «colui che parla in nome di...». Il profeta è il porta-parola di Dio. Il profeta dovrà parlare, ma le parole che dirà non saranno sue, ma di JHWH che parlerà attraverso di lui. Perciò le parole umane del profeta saranno a tutti gli effetti parole di Dio. Il rapporto tra Dio e il profeta sarà analogo a quello che si è stabilito tra Mosè e il fratello Aronne, al quale era stato conferito il ruolo di essere come la sua bocca (cfr. Es 4,15-16). Ha qui origine il concetto di ispirazione, in forza della quale la parola pronunziata dal profeta è al tempo stesso umana e divina. Il profeta non è uno strumento amorfo che agisce solo sotto l’influsso di Dio, ma è uno che scopre la parola di Dio attraverso un processo di riflessione umana alla luce della fede sugli eventi di cui è testimone.

Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire.
L’origine divina del ruolo del profeta fa sì che il popolo sia tenuto ad ascoltare le sue parole: obbedire al profeta significa infatti obbedire a Dio. Ma questo a condizione che il profeta parli veramente a nome di Dio, e non a nome proprio o di altri dèi. In altre parole il profeta deve situarsi all’interno della tradizione religiosa di Israele, deve ispirarsi ai suoi valori di fondo, cioè l’alleanza e il decalogo. Se il profeta predica le proprie convinzioni, allora ciò che insegna non ha un valore superiore a quello dei ragionamenti degli altri uomini. Può anche succedere che qualcuno si presenti a parlare in nome del Signore, ma in realtà difenda la causa di altri dei, cioè degli idoli. Se ciò dovesse accadere, egli renderà conto del suo errore; ma anche il popolo, se si lascerà condurre per strade errate, sarà responsabile del suo comportamento. Più che una obbedienza cieca, quella dovuta al profeta deve essere accompagnata e guidata dal discernimento. La stessa ispirazione che agisce nel profeta deve illuminare i suoi ascoltatori affinché sappiano discernere nelle sue parole la parola di Dio. Riconosciamo l’attualità del messaggio del Deuteronomio, che ci stimola a saper discernere l’autentico carisma profetico, accogliendo e praticando allo stesso tempo l’ammonimento di Gesù: «Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci!» (Mt 7,15). Sarebbe da ciechi non accorgersi come – al dire di san Paolo – oggi non si sopporta più la sana dottrina, ma ci si circonda di maestri secondo i propri capricci, ci si lascia travolgere da ogni vento di relativismo, ci si adegua al politicamente corretto che diventa ecclesialmente corretto, ci si sgancia dalla Tradizione della Chiesa e si rifiuta di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole (cfr. 2Tim 4,3-4). Lo stesso Apostolo ancora oggi proclama con forza: «se qualcuno vi annuncia un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema!» (Gal 1,8). Né la Chiesa né gli uomini di Chiesa possono rincorrere le mode del momento o accettare passivamente i gusti malsani della società. Siate sordi, se qualcuno vi parla senza Gesù Cristo: scriveva s. Ignazio di Antiochia ai cristiani di Tralli. Oggi è davvero necessario auspicare una “reviviscenza” del sensus fidei, che può manifestarsi anche attraverso individualità isolate, singoli santi, mentre l’opinione comune si accoda a dottrine non conformi alla fede apostolica (cfr. G. Cottier, «... hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» [Mt 11, 25] qui).«È urgente perciò recuperare il carattere di luce proprio della fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore» (Lumen fidei 4 qui).

LA GIORNATA DI CAFARNAO (Vangelo: Mc 1,21-28)
Insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi.
Il Vangelo di oggi descrive una giornata di Gesù, che gli studiosi definiscono come la giornata di Cafarnao. Del resto il racconto inizia con questa precisazione: «Entrarono a Cafarnao; e subito, entrato di sabato nella sinagoga, insegnava» (1,21). L’evangelista è particolarmente interessato a sottolineare che Gesù insegnava: il verbo è ripetuto due volte in due versetti consecutivi; nel secondo versetto è presente anche il sostantivo insegnamento, che verrà ancora ripetuto più avanti al v. 27. Più che a predicare (senso globale), quel giorno Gesù si è dedicato a un insegnamento approfondito e particolareggiato. Di tale insegnamento adesso non ci vengono riferiti i contenuti, ma le modalità: insegnava come uno che ha autorità e non come gli scribi (v. 22). La stessa annotazione è ripetuta alla fine dell’episodio: Che è mai questo? Un insegnamento nuovo insegnato con autorità (v. 27).
L’interesse dell’evangelista è che noi, come già la folla presente quel giorno a Cafarnao, prendiamo coscienza che Gesù insegna con autorità, non come gli scribi e che il suo insegnamento è nuovo. Nuovo non significa semplicemente qualcosa di non mai detto prima o di non mai sentito altrove. Non è semplicemente una novità cronologica. 
Nella parola di Gesù si avverte la presenza della novità di Dio, una novità qualitativa: qualcosa che rigenera, rinnova e ringiovanisce. L’insegnamento di Gesù non è una lezione scolastica né è riducibile ad una dottrina. La novità è Gesù stesso. È Cristo che “porta ogni novità portando se stesso” (Sant’Ireneo di Lione) con la sua parola pronunciata con autorità, manifesta l’amore di Dio. La Sua è una parola che opera, che libera chi è vittima del male, che lo strappa dal potere del Maligno per restituirlo alla sua dignità, alla sua libertà di figlio di Dio.

Non come gli scribi. L’insegnamento degli scribi esprimeva la preoccupazione di interpretare la Legge e di elaborare una dottrina. Gesù, invece, “insegna” mostrando la novità della sua vita come il “compimento” della Legge. Da ciò emerge una “autorevolezza” che genera stupore. Non si tratta solo di una “dottrina” migliore, più profonda o meglio costruita, rivolta all’intelligenza, ma di una forza che mentre mostra, trasforma misericordiosamente le persone che si aprono ad accoglierla. Quella di Cristo è parola forte e, al tempo stesso, dolce che guarisce e libera dal peccato. Quella di Cristo è l’autorevolezza di una persona ricca di misericordia divina e di umanità. 

Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono.
Oltre che all’insegnamento di Gesù, l’evangelista è interessato alla sua potenza e perciò racconta l’intervento di guarigione di un uomo posseduto da uno spirito impuro, cioè da un’entità personificata, che si oppone allo Spirito santo di Dio che abita in Gesù.
La presenza di Gesù nella sinagoga è una minaccia per questa forza demoniaca, ed ecco allora che la verità viene gridata: “Che c’è tra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il Santo di Dio!”. 
Questo spirito impuro parla di sé al plurale, presentandosi come una schiera di forze malefiche, demoniache; come una potenza che, messa alle strette, reagisce urlando con violenza, eppure proclamando una formula cristologica vera: “Tu sei il Santo di Dio” (cfr. Gv 6,68-69). Ciò però è finalizzato a generare scandalo e incredulità, perché questa forza plurale non vuole avere nulla a che fare con Gesù. Egli però intima a quella potenza: “Taci!”; quindi libera l’uomo da quella presenza devastante e mortifera. Il segno della liberazione avvenuta è un grande urlo: “lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui”. 
Si noti l’imposizione del silenzio da parte di Gesù: Il grido dell’indemoniato è formalmente una confessione di fede, ma Gesù impone immediatamente il silenzio, impedendo così di fare una proclamazione senza adesione, senza sequela. L’identità di Gesù non può essere proclamata troppo facilmente, come se fosse una formula dottrinale o, peggio ancora, magica. È diabolico confessare la retta fede senza porsi alla sequela di Gesù! In tutto il suo Vangelo Marco testimonia questa preoccupazione di Gesù circa la manifestazione della propria identità: non lo si deve divinizzare troppo velocemente, non si deve farlo perché incantati dai prodigi da lui compiuti, né si deve farlo perché ci si entusiasma di lui. Lo si potrà fare solo quando, avendo seguito Gesù fino alla fine, lo si vedrà appeso alla croce. Solo allora – attesta il vangelo – la confessione può essere vera, fatta in verità e con conoscenza profonda, come il centurione che, vedendo Gesù appeso al legno, proclama: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39). Il miglior commento è una parola di un monaco del XII secolo, Guigo I il Certosino: “Nuda e appesa alla croce deve essere adorata la verità”.

IL CARISMA DELLA VERGINITÀ (Seconda lettura: 1Cor 7,32-35)
Io vorrei che foste senza preoccupazioni.
Nella seconda lettura di oggi prosegue la proclamazione del capitolo 7 della Lettera di san Paolo ai cristiani di Corinto, con le risposte ai quesiti che quella comunità gli aveva posto riguardo alla vita nel matrimonio e nel celibato. In questo brano specifico l’attenzione è rivolta alla vita verginale e celibataria, e l’Apostolo insiste nell’uso del verbo preoccuparsi. 
San Paolo comincia dicendo che vorrebbe vedere i suoi fedeli «senza preoccupazioni» (amerimnous). Se uno si ferma qui, c'è il pericolo di vedere, nella verginità e nel celibato, una magnifica occasione per avere una vita tranquilla, senza problemi e preoccupazioni. Come san Pietro che, al sentire, un giorno, le esigenze austere del matrimonio proclamate da Gesù, esclamò: «Se è così, è meglio non sposarsi!» (cfr. Mt 19,10). Anche Gesù era del parere che è meglio non sposarsi, ma per un motivo assai diverso da quello, egoistico, inteso dall'apostolo e lo spiega subito, parlando di quelli che non si sposano per il Regno dei cieli.
L'Apostolo però aggiunge immediatamente: Chi non è sposato si preoccupa (merimnà) delle cose del Signore (tà toû kyrìou). Nelle parole di san Paolo sembra esserci un contrasto: da un lato, ha appena detto che vuole i suoi figli «senza preoccupazioni»; dall’altro adesso dice che li vuole tutti preoccupati e lo ripete due volte, una volta per il vergine e una volta per la vergine. Anch'essi, dunque, si devono preoccupare, ma «delle cose del Signore». Questo non è un ideale di vita tranquilla, senza affanni. È un vivere senza preoccupazioni mondane, per avere tutto il tempo e l'agio di preoccuparsi delle cose del Signore. 
«Con questa concisa espressione Paolo abbraccia l’intera oggettiva realtà del Regno di Dio. “Del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene”, dirà egli stesso poco più avanti in questa lettera (1Cor 10,26; cfr. Sal 23 [24],1). L’oggetto della sollecitudine del cristiano è tutto il mondo! Ma Paolo con il nome di «Signore» qualifica prima di tutto Gesù Cristo (cfr. ex. gr., Fil 2,11), e perciò «le cose del Signore» significano in primo luogo «il Regno di Cristo», il suo Corpo che è la Chiesa (cfr. Col 1,18) e tutto ciò che contribuisce alla sua crescita. Di tutto ciò si preoccupa l’uomo non sposato» (Giovanni Paolo II, Esaltazione della verginità e preoccupazione per le cose del Signore. Udienza generale: 30 giugno 1982 qui),
Ecco la dimensione apostolica della vita verginale e celibataria. Il celibe e la vergine esistono perché ci sia qualcuno, nella Chiesa e nel mondo, che si preoccupi solo degli interessi di Dio. 

Non c’è solo questo, perché chi non è sposato si preoccupa … come possa piacere al Signore. La «continenza per il regno di Dio» ha un carattere sponsale. L’uomo cerca sempre di piacere alla persona amata. Il «piacere a Dio» non è privo di questo carattere, che distingue la relazione interpersonale degli sposi. D’altra parte non è proprio vero che queste persone non si sposano. I vergini non sono coloro che hanno rinunciato a sposarsi; sono coloro che hanno rinunciato a sposarsi con una creatura. Non si tratta, dunque, per il vergine o la vergine, di rinunciare a un amore «concreto» per un amore «astratto», a una persona reale per una persona immaginaria; si tratta di rinunciare a un amore concreto per un altro amore concreto, a una persona reale per un'altra persona infinitamente più reale. La differenza è che in un caso ci si unisce «secondo la carne», nell'altro «secondo lo Spirito»; in uno si forma «una sola carne», nell'altro «un solo spirito». È scritto infatti che chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito (1Cor 6,17). E questo realismo di fede che faceva dire alla vergine sant'Agnese, di fronte alla proposta di nozze umane: «Sono già sposata... Mi ha legato a sé con l'anello il mio Signore Gesù Cristo» (Antico ufficio della festa). 
I celibi e le vergini per il Regno non sono dunque, semplicemente coloro che hanno «rinunciato a sposarsi». Sono piuttosto coloro che misteriosamente (si tratta di un dono!) e talvolta perfino dolorosamente, si sono accorti, magari dopo aver tentato, che una creatura, una famiglia, dei figli, tutto ciò non bastava loro, vi si sentivano troppo «allo stretto», che avevano bisogno di qualcosa di divino da amare, come lo scrittore danese Soren Kierkegaard che, dopo essersi distaccato dalla ragazza con cui era fidanzato, nel suo Diario si rivolge così a Dio:

Tu, infinita Maestà, anche se Tu non fossi amore, anche se Tu fossi fredda nella Tua infinita maestosità: io però non potrei fare a meno di amarTi, ho bisogno di qualcosa di maestoso da amare. Ciò di cui altri si son lamentati, cioè di non aver trovato l'amore in questo mondo e perciò sentirono il bisogno di amare Te, perché Tu sei l'amore (ciò ch'io concedo in pieno), vorrei proclamarlo anche nei riguardi del maestoso. C'era e c'è nella mia anima un bisogno della maestà, di una maestà che mai mi sentirò stanco o tediato di adorare. Nel mondo non trovai nulla di quella agognata maestà» (Diario, XI2 A 154).

Rabbi Simeone ben Azzai, un rabbino ebreo coetaneo di san Paolo, assiduo studioso della Legge mosaica, sfidando la mentalità comune dei suoi connazionali, rifiutò di sposarsi, dando questa giustificazione: «La mia anima è innamorata della Torah. Altri penseranno a far sopravvivere il mondo!» (Genesi Rabbah, 34, 14a). A maggior ragione, il celibe e la vergine cristiana possono far proprie queste parole e dire: «La mia anima è innamorata di Gesù Cristo; altri penseranno a far sopravvivere il mondo!».

Chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore.  
chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie. 

C’è come un contrappunto nelle parole dell'Apostolo, che tacitamente invita coloro che hanno scelto la verginità e il celibato a prendere esempio dalle persone sposate. Come la sposa deve piacere al marito, e viceversa il marito alla moglie, così anche il vergine o la vergine deve piacere a Qualcuno. Solo i mezzi per «piacere» sono diversi. San Pietro ne ricorda alcuni che valgono per ogni donna credente, ma più ancora per la vergine: «Il vostro ornamento non sia quello esteriore - capelli intrecciati, collane d'oro, sfoggio di vestiti - , cercate piuttosto di adornare l'interno del vostro cuore con un'anima incorruttibile, piena di mitezza e di pace: ecco ciò che è prezioso davanti a Dio» (1Pt 3,3 4).

Chi è sposato si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso a causa dei suoi doveri familiari (cfr. 7,34). 
La verginità, invece, permette di vivere «uniti al Signore senza distrazione». Lo stato di verginità ha anche una forte valenza soggettiva ed esistenziale. Aiuta infatti la persona a realizzare la propria interiore riunificazione, a passare dall'essere «una persona» all’essere «persona una». Noi coltiviamo tanti desideri e progetti, uno diverso dall'altro e contrario all'altro, che ci tirano in direzioni opposte; ci dis-traggono. La verginità è un valido aiuto per avanzare verso l'unità interiore, perché essa permette di vivere «uniti al Signore senza distrazioni». «La continenza in verità ci raccoglie e riconduce a quell'unità, che abbiamo lasciato, disperdendoci nel molteplice». Afferma perciò s. Agostino, parlando di Dio: «Ti ama meno chi ama altre cose con te, senza amarle per causa tua» (Confessioni; X, 29).
Questa unità è ciò che Gesù chiama «purezza di cuore». Essa consiste nel volere sempre meno cose, fino ad arrivare a volere «una cosa sola». Quando una persona può dire, in verità, con il salmista: Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco (Sal 27, 4) e: Fuori di te nulla bramo sulla terra (Sal 73,25), tale persona si sta avvicinando alla vera verginità del cuore, di cui quella fisica è segno e custodia. «Diversamente, «la divisione» può furtivamente entrare anche nella vita di un non sposato, il quale, essendo privo da una parte della vita matrimoniale e dall’altra di un chiaro scopo per cui dovrebbe rinunciare ad essa, potrebbe trovarsi davanti a un certo vuoto» (Giovanni Paolo II, L’azione della grazia di Dio in ogni uomo nella scelta tra verginità o matrimonio. Udienza generale: 7 luglio 1982 qui).

Per essere santa nel corpo e nello spirito.
La vita verginale o celibataria implica un singolare ed esclusivo rapporto con Dio, una assoluta concentrazione della propria esistenza orientata unicamente a Dio. Perciò l’Apostolo afferma che la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito. «La “santità”, secondo la concezione biblica, è piuttosto uno stato che un’azione; essa ha un carattere innanzitutto ontologico e poi anche morale. Specie nell’Antico Testamento, è una “separazione” da ciò che non è soggetto all’influenza di Dio, che è “profanum”, per appartenere esclusivamente a Dio. La “santità nel corpo e nello spirito”, quindi, significa anche la sacralità della verginità o del celibato, accettati per il “Regno di Dio”. E, contemporaneamente, ciò che è offerto a Dio deve distinguersi con la purezza morale e perciò presuppone un comportamento “senza macchia né ruga”, “santo e immacolato”, secondo il modello verginale della Chiesa che sta davanti a Cristo (Ef 5, 27)» (Giovanni Paolo II, L’azione della grazia di Dio in ogni uomo nella scelta tra verginità o matrimonio. Udienza generale: 7 luglio 1982 qui).

Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni.
Verginità e celibato sono un dono, corrispondenti a una particolare vocazione ricevuta dal Signore. «Ma – san Paolo lo ha già anticipato nella stessa lettera ai Corinti – ciascuno riceve da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro» (1Cor 7,7). E s. Agostino specifica: «non solo la continenza è un dono di Dio, ma anche la castità dei coniugati» (De dono perseverantiae 14,37). L’Apostolo, quindi, tiene ad assicurare che egli, sottolineando il valore della vita verginale o celibataria, non intende gettare un laccio, cioè non vuole creare problemi: se avete ricevuto un altro carisma da Dio, seguite quest’altro carisma; se la vita verginale è carisma, altrettanto lo è la vita matrimoniale. 
Nell’uno o nell’altro stato di vita interessa che vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni. Il rapporto col Signore è assoluto e deve essere sempre e comunque assolutizzante. Oltre la verginità del corpo, la “verginità del cuore” è un ideale di vita che tutti i cristiani debbono perseguire escludendo ogni compromesso con l’errore, ogni indulgenza a valori eterogenei e centrifughi che contrastano l’adesione al valore assoluto di Cristo e di ogni incrinatura nella fede.  In 2Cor 11,2 Paolo proclama: «Sono geloso di voi di gelosia divina, avendovi fidanzato a un solo sposo, per presentarvi a Cristo qual vergine pura». Viene quindi affermata la “verginità ideale” della comunità cristiana ossia la “verginità dell’anima”. Non si tratta del carisma della verginità riservato solo ad alcuni: il testo di 2Cor 11,2, a differenza di 1Cor 7,5-35, interessa tutta la comunità cristiana, e la «verginità dell’anima» costituisce la prerogativa della Chiesa, che ad un tempo è “fidanzata” e “sposa” di Cristo (cfr. Ef 5, 22-24 [Chiesa – sposa]; 25-27 [Chiesa – fidanzata]; 28-32 [Chiesa –  sposa]). Sant’Agostino spiega il passo di 2Cor 11,2 affermando: «Non si suole parlare di verginità a proposito di persone sposate. Ma anche per queste persone esiste ugualmente la verginità della fede… Sono poche quelle che restano vergini nel corpo; ma tutti devono esserlo nel cuore» (Sermone 93,4: PL 28,574-575). Altrove Agostino afferma: «Quanto agli altri, se non sono più vergini nel corpo, tutti lo sono nell’anima. Cos’è la verginità dell’anima’ è una fede integra, una speranza ferma, un amore sincero» (In Ioannem 13,12: PL 35, 1498-1499).
Il carisma della verginità, concesso ad alcuni, ha valore di “segno” e si pone a servizio della “verginità dell’anima” quale prerogativa e impegno di tutti i cristiani. I consacrati e le vergini assolvono un compito ecclesiale: sono una epifania, o manifestazione visibile, della Chiesa Sposa di Cristo che vive nella dedizione piena ed esclusiva a Cristo suo sposo e si prepara all’incontro definitivo con Lui. Anche gli sposati partecipano di questo simbolismo, ma con una sfumatura diversa. Marito e moglie sono segno del grande mistero dell'unione di Cristo e della Chiesa (cfr. Ef 5,32), ma «di Cristo e della Chiesa», non della Chiesa soltanto nei confronti di Cristo. È un altro genere di simbolismo, anche se è sommamente istruttivo vedere già da qui come entrambe le due vie, quella verginale e quella coniugale, servano da simbolo di realtà spirituali e sono perciò sante (cfr. R. Cantalamessa, Verginità. Milano, Ed. Áncora, 1988).

Salmo responsoriale (Sal 94)
Ascoltate oggi la voce del Signore; non indurite il vostro cuore.
Le letture di oggi ci hanno presentato due figure: il profeta (I lettura) e la vergine (II lettura). Più che di due “figure”, si tratta di due “carismi”: la profezia e la verginità. Soprattutto l’Apostolo san Paolo ci ha spiegato l’eccelso valore e significato della profezia della verginità.
Tra l’una e l’altra lettura il Salmo responsoriale ci ha lanciato un messaggio urgente e quanto mai attuale: Ascoltate oggi la voce del Signore; non indurite il vostro cuore. Riuniti per l’Eucaristia nel Giorno del Signore, dovremmo accogliere realmente questo appello. Ancora una volta, oggi, Gesù è presente in mezzo a noi, come quel giorno nella sinagoga di Cafarnao; Egli ci parla con autorità offrendoci quell’insegnamento nuovo che eleva e nobilita la dignità dell’uomo.  
Gesù scende con autorità nel nostro cuore e lo guarisce. Solamente Lui può liberarci dallo “spirito impuro” che inquina profondamente la nostra società non consentendogli più di percepire i valori alti, di sperimentare la nobiltà dei sentimenti, di comprendere il senso dell’amore vero, di apprezzare la virtù della purezza, di stimare l’eccellenza della verginità consacrata in una vita interamente dedicata a Cristo e ai fratelli.
Lo “spirito impuro” che oggi si avvale di tante “strutture di peccato” ha deturpato l’amore e ha banalizzato la sessualità. Alla liberazione sessuale non è seguito quell’universo gioioso e danzante che pure era stato sognato, ma la droga, l’erotismo, la pornografia e ogni genere di assurda e primitiva deviazione. Appunto: non la liberazione e la valorizzazione, bensì la distruzione dell’amore e la più cupa infelicità. 
Lo “spirito impuro” del nostro tempo ha prodotto la sclerokardìa. L’indurimento del cuore è il peccato numero uno della modernità che addirittura ha abolito la categoria del peccato, così come ha soppresso il concetto di anima. Il cuore sclerotico (indurito) è diventato qualcosa di cui vantarsi, un segno della propria vitalità e della propria intraprendenza, con la conseguenza però di precludersi la via per vedere la bellezza del mondo, per avere il gusto di tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, per dedicarsi agli affetti disinteressati, per coltivare la propria anima e farla evolvere verso la luce della verità.
Per resistere a tanta aberrazione, per rigenerare la nostra società, è necessario ascoltare la voce del Signore. Occorre arrendersi alla potenza di Cristo per debellare lo “spirito impuro” che c’è dentro di noi, spezzare il nostro cuore di pietra, e consentire allo Spirito Santo di trasformarlo in cuore di carne. 

A questo scopo preghiamo:
Padre, Dio potente e misericordioso, metti a tacere le potenze del male che si agitano nel mondo e donaci un cuore attento e pronto ad ascoltare la voce di Gesù, tuo Figlio e nostro fratello e Signore. Egli vive e regna nei secoli dei secoli. Amen. 

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