San Felice da Nicosia
Bisaccia Eroica

 

Liturgia

La celebrazione liturgica di San Felice da Nicosia è assegnata al 2 giugno per i Frati Cappuccini e per le Chiese di Sicilia.

 

Dati anagrafici

Nome civile: Filippo Giacomo
Cognome: Amoruso
Luogo e data di nascita: Nicosia 5.11.1715
Ingresso nell’Ordine: Mistretta 10.10.1743
Professione perpetua: Mistretta 10.10.1744
Trasferimento alla fraternità di Nicosia 1745
Pio Transito: Nicosia 31.5.1787
Beatificato da Leone XIII: 12.2.1888
Canonizzato da Benedetto XVI: 23.10.2005

 

Profilo biografico

Il primo santo cappuccino, Felice da Cantalice, è risaputo che abbia contribuito a dare un tono particolare di semplicità, di umiltà, di povertà e di letizia alla santità cappuccina, diventando quasi un modello insostituibile per molti fratelli laici. Così è stato per Giacomo Amoroso da Nicosia nella fertile terra di Sicilia, quando nel 1743, ventottenne, iniziò nel convento di Mistretta l'anno di noviziato, assumendo anche nel nome la figura e l'esempio del santo fratello, canonizzato una trentina d'anni prima. Ma non era stata facile questa sua vocazione, nonostante avesse egli trascorso la sua giovinezza in modo straordinariamente virtuoso. Perché i suoi genitori, Filippo Amoroso e Carmela Pirro, che lo ebbero da Dio il 5 novembre 1715, portando avanti una numerosa famiglia nella povertà, erano ricchi di timor di Dio e di soda testimonianza cristiana.
Il padre Filippo faceva il ciabattino in un bugigattolo semibuio e a stento riusciva a tirare avanti. Ma voleva specializzare il figlio nel suo lavoro, tanto da affidarlo, appena cresciuto, alla più rinomata calzoleria della città, gestita da Giovanni Ciavarelli con molti operai. Qui Giacomo aveva imparato bene il mestiere e mentre sedeva appartato in silenzio al suo deschetto di fatica, trovava modo di inculcare serietà, rispetto e devozione anche agli altri colleghi operai. Benché giovanissimo, nella sua accesa religiosità era riuscito non solo a frequentare la pia unione dei Cappuccinelli presso il convento di Nicosia, ma ad esservi iscritto e quindi a in¬dossare la cappa dei congregati, con un piccolo cappuccio france¬scano, assimilando con voluttà la spiritualità cappuccina. E questa spiritualità la esprimeva in tutti i suoi atti e durante il suo lavoro. Quando entrava in bottega, riferisce un teste che era stato collega calzolaio, «si levava la berretta dalla testa, e poi salutava tutti dicendo: In ogni ora e in ogni momento sempre sia lodato il Santissimo Sacramento. Stava sempre colla testa scoperta, per¬ché diceva egli che in ogni luogo vi è Dio, e bisogna stare alla sua presenza con riverenza, rispetto e venerazione». E se qualcuno lo motteggiava con schemi mordaci, per lo più rispondeva: "Sia per l'amor di Dio", un ritornello che diventerà usuale programma di tutta la sua vita. Da "cappuccinello", quando sentiva suonare la campanella del vicino convento dei cappuccini, s'inginocchiava a pregare e invitava anche gli altri: «Suona compieta. Servi di Dio, diciamo il santo rosario alla Vergine Santissima».
Sembrava fatto apposta per diventare cappuccino. Invece dovet¬te attendere molti anni ancora. Diciottenne bussò alla porta del con¬vento per esservi accolto come fratello laico, non essendo istruito. Ne ricevette sempre un sonoro diniego, perché la povertà della famiglia richiedeva il suo contributo insostituibile di lavoro. Morti però i geni¬tori, Giacomo rifece la domanda al nuovo provinciale dei cappuccini, padre Bonaventura da Alcara, in visita a Nicosia. Finalmente, dopo dieci anni di attesa, il "cappuccinello" poteva diventare un completo frate cappuccino, deciso, col nome di Felice da Nicosia, a battere la stessa strada di Felice da Cantalice, fino al punto da raggiungere sor¬prendenti coincidenze: noviziato a ventotto anni, professione a venti¬nove anni, questuante per quarantatré anni nella stessa natia Nicosia (come san Felice a Roma) e morte a settantadue anni. "Bisaccia eroi¬ca" lo definirà una popolare biografia di Icilio Felici.
Seguire la sua vicenda biografica è un compito di estrema fa¬cilità. Dopo l'anno di noviziato a Mistretta, fra Felice fu destinato alla sua Nicosia, dove rimase questuante per tutta la vita, diventan¬do nella città una presenza di spiritualità radicata nella popolazio¬ne e perciò intoccabile. Questo spiega la sua lunga e unica perma¬nenza, fuori di ogni regola dell'Ordine, nel convento del Colle dei cappuccini a Nicosia. Nel convento si prestò ad ogni lavoro: cer¬catore, portinaio, ortolano, calzolaio, infermiere. Allargava il giro della questua, oltre che nella città natale, nei paesi vicini, come Capizzi, Cerami, Gagliano, Mistretta e altri. Di casa in casa, assai raccolto e mortificato, silenzioso, la corona in mano, camminava — racconta un teste — «gli occhi intra na grutta, cioè chiusi chiusi, come entro una grotta, sempre in silenzio, e mi pareva, quando lo guardavo, sempre raccolto in Dio». L'unica parola che tutti, or¬mai, avevano imparato, era un sorridente ringraziamento: "Sia per l'amor di Dio". Definiva se stesso col vezzeggiativo ‘u sciccareddu, il somarello del convento, che arrivava carico, dopo la questua, come usavano i carrettieri siciliani.
Per le strade istruiva i fanciulli nei rudimenti del catechismo e, per attirarli, dava loro pane e fave. Anzi, aveva un suo metodo pratico. Dalle sue tasche, sempre provvedute, estraeva per i poveri bambini denutriti e malvestiti piccoli doni: una noce, tre nocciole, cinque fave, dieci ceci, a ricordare a quei bimbi il Dio uno in tre persone, le cinque piaghe di Gesù Crocifisso e i dieci comanda¬menti di Dio: regalucci e carezze che riflettevano una lezioncina di fede. Come Felice da Cantalice per le vie di Roma, così egli inse¬gnava anche graziose canzoncine condite di preghiere, di atti delle virtú teologali. Una di queste canzoni è ricordata nel processo:
Vieni e riposa "intra stu cori" ingrato. Avendo il vostro amore e il vostro affetto, campo contento e poi muoio beato.
Quando incontrava poveri che trasportavano legna o altre cose pesanti, egli si prestava ad aiutarli. Ma ogni sofferenza trovava un'eco profonda nel suo cuore. Non si dava pace finché non avesse potuto far qualcosa per i bisognosi. Per gli ammalati era sempre pronto a servirli, giorno e notte. Ogni domenica, andava a visita re i carcerati e portava loro del cibo. Il suo superiore e confessore padre Macario da Nicosia attesta che «tutti sovveniva, tutti aggiu¬stava, e nello spirito e nello temporale, per quanto poteva, conser¬vandosi e pane e carne ed altro per darla ai necessitosi e, quando l'obbedienza glielo accordava, se li toglieva dalla bocca sua, e sem-pre l'avrebbe fatto se questo glielo avesse permesso. E andava qua e là dimandando e vesti e soccorso dai benestanti per tutti coprire e tutti sovvenire. Quando non poteva, era così grande la sua pena, che si sentiva crepare».
Questo suo superiore paesano lo trattò duramente nei venti¬tré anni che fu suo direttore spirituale. Tutti conoscevano i suoi rimbrotti e nomignoli coi quali umiliava il suo fra Scuntentu, pol¬trone, ipocrita, gabbatore della gente, santo della Mecca. A questi toni crudi e aspri faceva da contrasto la nota dolcissima come un ritornello: "Sia per l'amor di Dio". E molte volte fra Felice per ob¬bedienza doveva fare il giullare in mezzo al refettorio, con abiti carnevaleschi improvvisati, fingendo magari di distribuire come profumata ricotta una massa (così fece una volta) di cenere impa¬stata nella fiscella che portava in testa, che poi miracolosamente diventava davvero fresca ricotta, tra lo stupore dei frati e un'enne¬sima arruffata del superiore.
Egli era analfabeta. La sua devozione era semplice, la parola un fatto di vita, non una considerazione intellettuale. Era de¬votissimo dell'Eucarestia, della Vergine Addolorata e di Gesù crocifisso. Il sagrestano del convento di Nicosia, fra Francesco Gangi così lo ricorda: «Egli sempre mi diceva e mi raccomanda¬va d'impararmi a fare orazione mentale, e specialmente sopra la passione di Gesù Cristo, e mi diceva che chi medita e pensa alla passione di Gesù Cristo non patirà pene d'inferno, e ciò me lo diceva con tanto fervore di cuore, e piangendo. Io per l'impiego di sagrestano aveva sempre occasione d'incontrarmi con esso, e lui piangendo mi abbracciava e mi diceva a fare orazione sopra la passione di Gesù Cristo».
Sarebbe interminabile il racconto dei numerosi fatti e aned¬doti fioriti come leggenda durante la sua vita. Resta tuttavia un aspetto da non tralasciare: la sua candida religiosità popolare, che utilizzava come rimedio infallibile di ogni male le "polizze" della Madonna, striscioline di carta ritagliate, sulle quali erano stampa¬te invocazioni devote alla Vergine, in latino o siciliano. Ne aveva sempre con sé e spesso le distribuiva. Le appendeva alle porte di case dov'erano ammalati o poverelli, alle botti da cui riceveva l'ele¬mosina del vino, le gettava nel fuoco che aveva attaccato i covoni pronti per la trebbiatura, nel grano annerito per calamità naturale, nella cisterna screpolata e senz'acqua, e fiorivano grazie e miracoli, spesso veri scherzi della Provvidenza.
Alleggerito da ogni incarico, col fisico ormai ridotto male per le estreme penitenze e mortificazioni, era sempre pronto ad ogni forma di servizio, soprattutto con gli ammalati in infermeria del convento. Mentre le forze diminuivano nel languore dei suoi set¬tantadue anni, cresceva in intensità la sua concentrazione in Dio e la sua lieta e semplice obbedienza. Se di Francesco d'Assisi è stato detto che era divenuto la personificazione della preghiera, di fra Felice si potrebbe dire che era l'obbedienza in persona, come atto di puro amore. Fu questo il suo ultimo e unico messaggio. Alla fine del mese di maggio del 1787 'u sciccareddu, il somarello del convento, sceso nel chiostro a badare alle sue erbe medicinali che coltivava per gli ammalati, si accasciò sull'aiuola, senza forze. Nel suo lettuccio, ricevuti i sacramenti, e raccomandandosi a "mani 'nchiuvati”, mani inchiodate, ossia al Cristo Crocifisso, invoca¬va spesso la Madonna. 
Venerdì 31 maggio chiese al suo superiore l'obbedienza di morire, e ricevette l'assenso alla terza richiesta, re¬stando luminoso nel suo dolce sorriso e nell'ultimo fil di voce: "Sia per l'amor di Dio" che mormorò, chinando il capo. 
Fu beatificato da Leone XIII il 12 febbraio 1888. 
Soltanto dopo oltre un secolo, nel quale perdurò ininterrotta la fama di santità e la devozione, Papa Benedetto XVI, nella sua prima cerimonia di canonizzazione, lo proclamava santo il23 ottobre 2005 in piazza San Pietro. Nella sua omelia colse in poche parole la sostanza della santità del nuovo santo con queste intense parole:

«San Felice da Nicosia amava ripetere in tutte le circostanze, gioiose o tristi: "Sia per l'amor di Dio". Possiamo così ben comprendere quanto fosse intensa e concreta in lui l'esperienza dell'amore di Dio rivelato agli uomini in Cristo. Questo umile frate cappuccino, illustre figlio della terra di Sicilia, austero e penitente, fedele alle più genuine espressioni della tradizione francescana, fu gradualmente plasmato e trasformato dall'amore di Dio, vissuto e attualizzato nell'amore del prossimo. Fra Felice ci aiuta a scoprire il valore delle piccole cose che impreziosiscono la vita, e ci insegna a cogliere il senso della famiglia e del servizio ai fratelli, mostrandoci che la gioia vera e duratura, alla quale anela il cuore di ogni essere umano, è frutto dell'amore».


(Fonte: C. CARGNONI, S. Felice da Nicosia, in Sulle orme dei Santi. Il Santorale Cappuccino. Santi, Beati, Venerabili, Servi di Dio. Edizioni Padre Pio da Pietrelcina – San Giovanni Rotondo, 22012; 227-234).